Andrea Pubusa
La prima volta che ho sentito parlare di mobilità fu alla fine del 1999, nella fase precedente il I° Congresso di Torino dei DS. Se ne parlava nel documento posto da Veltroni, segretario del partito, a base della sua mozione. Io inizialmente non capii; ero sempre fermo nell’idea che lo Statuto dei Lavoratori fosse per noi una base intangibile, ossia potesse modificarsi in melius, ma non in peius, almeno ad iniziativa della sinistra. Scoprii così con sorpresa e rabbia che invece Veltroni passava dall’altra sponda. Sostanzialmente chiedeva l’abolizione dell’art. 18 dello Statuto del Lavoratori, quello per cui avremmo combattuto qualche anno dopo nella formidabile mobilitazione di massa della CGIL di Cofferati.
Tremonti ha elogiato il posto fisso. «La variabilità del posto di lavoro, l’incertezza, la mutabilità per alcuni sono un valore in sé, per me onestamente no - ha aggiunto il ministro -. C’è stata una mutazione quantitativa e anche qualitativa del posto di lavoro, da quello fisso a quello mobile. Per me l’obiettivo fondamentale è la stabilità del lavoro, che è base di stabilità sociale». Poi ha anche rilanciato la tesi della compartecipazione: «Questo Paese ha meno bisogno della cogestione e più bisogno della compartecipazione da parte dei lavoratori nelle imprese», ha proseguito Tremonti. «La cogestione, come nascita di figure imprenditoriali miste, mi sembra meno positiva, mentre credo sia più positiva l’informazione sulla gestione dell’impresa. Il meccanismo compartecipativo può anche avere forme diverse. Per esempio, un favore fiscale sulla detassazione degli straordinari».
Fin qui il ministro. A noi invece preme sottolineare che Tremonti, parlando del posto fisso, ha evocato una figura astratta che si presta a critiche di vario genere. Ad esempio: “vuoi mantenere in azienda chi non serve, non vuoi l’efficienza, l’economicità”; oppure “vuoi i carrozzoni antieconomici”. In realtà più che di posto fisso occorre parlare di diritti dei lavoratori sui luoghi di lavoro. Non solo, ma che i diritti comportano anche doveri. I lavoratori coscienti sono quelli esigenti nel pretendere il rispetto dei loro diritti, ma anche molto responsabili e zelanti nell’adempiere i propri doveri. Questa è del resto la tradizione del movimento operaio, nella sua versione comunista e socialista, in cui il lavoratore doveva sempre farsi carico dell’andamento dell’azienda e della produzione, esercitandosi così a quella gestione diretta, considerata la base di una società socialista. Perché non leggete le mirabili pagine di Gramsci sui consigli di fabbrica? E perché non ricordare che durante la guerra di liberazione sono stati gli operai a presidiare e a salvare le fabbriche del Nord? Quando magari i padroni se l’erano data a gambe!
Non è neanche esatto dire che lo Statuto dei Lavoratori impone all’impresa di mantenere lavoratori non necessari, perché il licenziamento per “giustificato motivo” legittima esattamente la risoluzione del rapporto quando lo richiedano esigenze produttive e di mercato (esempio diminuzione delle commesse). Non solo, ma l’inprenditore può licenziare il lavoratore che venga meno ai propri doveri. E’ questa la c.d. “giusta causa”. L’art. 18 dello Statuto e la procedura civile, poi, non demandano ad un soviet o a un collettivo l’accertamento delle giusta causa o del giustificato motivo che siano contestati dal lavoratore; è il giudice del lavoro a dover sindacare l’esistenza di questi presupposti e ad emettere la sentenza, che annullerà il licenziamento soltanto ove esso sia sfonito di valide motivazioni. Quindi niente posto fisso. Solo rispetto dei lavoratori e loro tutela quando non vi sono esigenze produttive o mancanze che giustifichino la risoluzione del rapporto di lavoro.
Bisogna rilanciare con forza questi temi, non solo per non farsi scavalcare a sinistra addirittura da Tremonti, ma per dare una base certa al rilancio della sinistra. E’ il lavoro, sono i lavoratori i referenti primi della sinistra. Senza mettere al centro il lavoro si rimane appesi per aria. O pensano il PD e le varie sinistre di rilanciarsi coi libri dei sogni o, peggio, con le beghe interne?
1 commento
1 Cristian Ribichesu
25 Ottobre 2009 - 16:51
Io sono per il posto fisso, con la valutazione del merito e il licenziamento per giusta causa, ma per il posto fisso. In Italia si è passati dalla flessibilità nel lavoro, concetto, relativamente, positivo di qualche anno fa, alla “flessibilità” negativa del precariato, che vede vere e proprie interruzioni lavorative (la flessibilità era prevista senza soluzioni di continuità). L’assistenzialismo o le misure di solidarietà sociale devono essere solo temporanee, mentre invece bisogna investire per creare occupazione stabile. I risparmi devono essere fatti agendo sul controllo dei finanziamenti in tutti i settori, dalle grandi incompiute dell’edilizia, che alla fine dei conti fanno lievitare i costi delle opere molto più di quanto previsto inizialmente, all’imposizione di un tetto massimo per gli stipendi dei manager, alla regolamentazione delle scatole cinesi che invadono il mercato delle S.P.A., alla riduzione degli stipendi e dei privilegi dei parlamentari, alla lotta contro l’evasione fiscale, alla lotta contro le organizzazioni criminali, ecc. . Tra l’altro, in molti casi, non dico sempre, la precarietà, con i sistemi dei contratti a tempo determinato e con i progetti, facilita la creazione di clientele o meccanismi impliciti o espliciti, volontari o involontari di gestione delle persone, per non parlare della riduzione della tranquillità generale da parte di chi si trova nella situazione della precarietà. Posto fisso, si, ma meritato, senza negare, appunto, la valutazione del merito e il licenziamento per giusta causa, ma tensione verso la stabilizzazione al lavoro di tutti
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