Gianluca Scroccu
“I lampi dei cannoni e dei proiettili illuminavano come in un orrendo temporale la notte oscura, fumosa”. Così scriveva Luigi Barzini raccontando ai suoi lettori del “Corriere della Sera” la guerra russo-giapponese del 1905. Un esempio tra i più noti del giornalismo di guerra analizzato ora da Oliviero Bergamini nel suo Specchi di guerra. Giornalismo e conflitti armati da Napoleone a oggi (Laterza, pp. 343, € 22,00).
Inviato del Tg3 ma anche storico del giornalismo e degli Stati Uniti all’Università di Bergamo, l’autore conduce il lettore, in una felice sintesi tra pezzi antologizzati e rigorosa analisi storica, all’interno delle dinamiche del giornalismo bellico da Napoleone sino ai recenti conflitti in Iraq e Afghanistan.
Si passa così da William Russell, che seguì la guerra di Crimea e che può essere definito il primo reporter bellico inviato sul posto dal suo giornale, ai cronisti della Prima Guerra Mondiale, che piegarono quasi interamente il loro lavoro alle esigenze e alla retorica patriottica dei governi, sino alla Seconda Guerra Mondiale, raccontata da più di tremila giornalisti e dove, alla propaganda dei regimi totalitari nazifascisti e sovietico, si contrappose “la strategia della verità” degli Alleati, anche se non mancarono forzature e silenzi come quello imperdonabile sulla Shoah.
Bergamini dedica poi uno spazio importante alla Guerra Fredda soffermandosi in particolare sulla tragedia del Vietnam, durante la quale l’informazione seppe far affiorare gli aspetti più brutali del conflitto anche grazie all’utilizzo delle fotografie e alla copertura radiotelevisiva e dove si segnalarono grandi inviati come Seymour Hersh o i nostri Oriana Fallaci e Tiziano Terzani che si sommano agli straordinari articoli di Ryszard Kapuściński sulle guerre etnico-tribali dell’Africa.
L’autore si sofferma poi sulla fisionomia del rapporto fra guerra ed informazione negli ultimi venticinque anni, definiti “gli anni della rivoluzione negli affari militari”. In questo lasso di tempo sono emerse infatti tipologie belliche, da quelle etniche a quelle asimmetriche successive all’11 settembre, che spesso hanno visto in prima fila stampa e tv pronte nell’appoggiare l’opera di persuasione della popolazione su ispirazione diretta dei governi come nel caso della guerra in Iraq. Manipolazioni e autocensure di giornalisti “embedded” a seguito delle truppe ma dove paradossalmente si è visto molto poco di quello che accadeva rispetto all’enorme dispiegamento di telecamere spesso succubi delle logiche della informazione spettacolare e sensazionalistica.
Un vero “news management” favorito dalla gestione delle notizie da parte degli uffici stampa militari, in maniera apparentemente collaborativa e non censoria ma che spesso ha prodotto vere e proprie notizie false, come nel caso della liberazione della soldatessa Jessica Lynch. Questo non ha impedito, tuttavia, che fosse proprio l’informazione occidentale a svelare vergogne come le torture di Abu Ghraib e Guantanamo e che molti cronisti pagassero con la vita la loro professionalità nel raccontare le guerre contemporanee, come i nostri connazionali Ilaria Alpi, Maria Grazia Cutuli o Enzo Baldoni.
Quello che emerge è un quadro che vede il moltiplicarsi degli attori dell’informazione, dalla nascita di reti “all news” anche in lingua araba come Al Jazeera sino ai blog su Internet, i quali pongono nuove sfide alla professione giornalistica, ad esempio rispetto al problema dell’attendibilità delle fonti. Oltre al fatto, come ricorda Bergamini, che il giornalismo di guerra deve mantenere profondità e spessore contro ogni tentativo di limitazione di un diritto fondamentale come la libertà d’informazione.
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