Il capitalismo? Anch’esso è parassitario

11 Ottobre 2009
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Gianfranco Sabattini

Di recente, gli editori Laterza hanno pubblicato un piccolo saggio di Zigmunt Bauman (Capitalismo parassitario, 2009), nel quale il sociologo e filosofo britannico analizza la crisi economica mondiale provocata dal mercato immobiliare degli Stati Uniti alla luce della sua teoria sulla “società-liquida”. Per Bauman, la società moderna può essere definita “liquida”, in quanto le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure. Tutto ciò, per Bauman, avrebbe concorso a trasformare i suoi protagonisti da produttori in consumatori. E’ in questa prospettiva che si inquadra la critica baumaniana al capitalismo, il quale, per il sociologo-filosofo inglese offrirebbe il “meglio di sé non nel risolvere i problemi, ma nel crearli”, in quanto non riuscirebbe ad essere simultaneamente coerente e completo. Quando è coerente con i suoi principi insorgono problemi che non è in grado di affrontare, mentre quando cerca di risolverli non vi riesce senza cadere in contraddizione con i suoi presupposti. Per questo motivo, il capitalismo sarebbe parassitario e, come tutti i parassiti, la sua forza starebbe nella ingegnosità con la quale esso scopre “specie” ospitanti (opportunità di sfruttamento) e, quando le “specie” sfruttate si esauriscono nel trovarne di nuove. Il problema, quindi, per l’umanità intera consiste nel domandarsi quando si esaurirà questo processo di sfruttamento. Pensare ad una morte prossima del capitalismo, tuttavia, per Bauman, è alquanto prematuro; si può pensare che ciò possa accadere una volta che la cultura dell’”avido è bello” della quale è impregnato possa esser spazzata via e le componenti non economiche di quella che solitamente viene definita “vita piacevole” possano assumere maggiore considerazione.
L’imprevedibilità di una prossima morte del capitalismo è dovuta al fatto che esso dispone del supporto di uno Stato sempre orientato a conciliare le esigenze del lavoro con quelle del capitale attraverso la “cura” che lo Stato riserva al mercato. Di regola, le politiche dello Stato capitalista sono pensate ed attuate sempre nell’interesse del mercato. Il loro scopo principale è quello di garantire la sicurezza e la longevità del dominio del mercato; lo stesso stato-sociale difficilmente sarebbe nato se i “padroni delle fabbriche” non avessero ritenuto che curare le esigenze del lavoro fosse stato per loro profittevole. In ultima istanza, per Bauman, se lo stato-sociale è oggi assoggettato a un processo di contrazione è perché le fonti dei profitti del capitalismo si sarebbero spostate dallo sfruttamento del lavoro allo sfruttamento del consumo. A tale fine, la cultura, della quale deve essere permeata la moderna società, dovrà essere “a misura della libertà di scelta individuale”; la cultura dovrà cioè orientare i componenti della società moderna a “vivere di seduzione”, non di “regolamentazione”, di “creazione di nuovi bisogni”, non di “coercizione”. La fase attuale della progressiva trasformazione dell’idea di cultura dalla “sua forma originaria, d’ispirazione illuministica, alla sua reincarnazione liquido-moderna è stimolata e gestita dalle stesse forze che promuovono l’emancipazione dei mercati”, ovvero la loro evoluzione ed il loro orientamento. Bauman, al riguardo, concepisce la sociologia come la critica posta al servizio della società per liberarsi dagli esiti più negativi della sua liquefazione; tuttavia, egli manca di indicare cosa occorre fare al riguardo e, soprattutto, manca di indicare chi dovrebbe agire per porre in atto i necessari rimedi. Ora, se è vero che la sociologia non può sostituire la politica, è anche vero che la stessa politica dovrà essere in grado di sapere come affrontare le riforme istituzionali necessarie perché tutti coloro che operano all’interno delle attuali società capitalistiche non siano vittime della postmodernità.
A tal fine, la politica non potrà sottrarsi alla necessità che, quale che siano le riforme istituzionali che si intenderà realizzare, i consumatori siano sottratti agli stati di necessità che li espone ai condizionamenti del mondo della produzione con la istituzionalizzazione di un reddito di cittadinanza universale ed incondizionato. Esso non avrebbe solo lo scopo di liberare dal bisogno indistintamente tutti i consumatori, ma avrebbe anche lo scopo di creare le condizioni per stimolare i consumatori stessi ad affrancarsi dai condizionamenti attraverso l’attivazione di comparti orientati ad offrire beni e servizi esistenziali dei quali essi sono stati nel passato i principali centri di produzione e di distribuzione. Non si tratterebbe di un puro e semplice maggior ruolo attivo del consumo conseguente alle maggiori conoscenze specifiche delle quali disporrebbero oggi i consumatori. Ma di un consumo non più pilotato in modo esclusivo dall’offerta, con una diversificazione della produzione decisa in funzione dell’acquisizione continua di un insieme di beni e servizi che il sistema di sicurezza sociale ha cessato di offrire in termini qualitativamente apprezzati. Sembra questa, infatti, l’azione politica più adatta per eliminare i lati più cupi indotti dal funzionamento del modo di produzione capitalistico che vuole il consumo costantemente subordinato, per il suo sfruttamento, alla produzione.

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