Gianfranco Sabattini
Prosegue la riflessione su federalismo e centralismo avviato ieri con questo intervento del Prof. G.F. Sabattini sulle ragioni ostative alla realizzazione di un autentico federalismo in Italia, mentre nello sfondo c’è il pericolo dell’implosione e della frammentazione.
Le istanze del movimento politico-culturale maturato in Sardegna e che si era espresso col sardismo sono state soddisfatte senza andare oltre la concessione, con lo Statuto del 1948, di un’autonomia speciale “ottriata”, i cui limiti sono stati colti sarcasticamente da un autentico federalista qual era Emilio Lussu, con la lamentazione che, a fronte della promessa di “concedere un leone”, la Sardegna, in termini di autonomia istituzionale, ha dovuto accontentarsi di “ricevere un “gatto”. Non è un caso che l’insoddisfazione politica di Lussu, favorevole ad una struttura costituzionale della Repubblica Italiana istituzionalmente asimmetrica, abbia alimentato un duro confronto politico con Renzo Laconi, il quale, pur da autonomista regionale, ha affievolito la sua istanza sacrificandola sull’altare dell’egemonia dell’ideologie dei grandi partiti; sacrificio, questo, che è valso a legittimare il ruolo di un sistema di partiti centralistico e, sul piano istituzionale, fortemente simmetrico.
La crisi delle ideologie, nell’arco di tempo tra gli anni Settanta ed Ottanta, ha determinato nel nostro Paese il lento emergere e la successiva affermazione di partiti regionali legati ad istanze territoriali. La comparsa della Lega Nord ha costituito un precedente fortemente innovativo, in quanto ha introdotto per la prima volta nella storia repubblicana un elemento di forte asimmetria nell’organizzazione dei partiti, la cui presenza è stata all’origine di riforme costituzionali venate di federalismo. La presenza della Lega ha ispirato, o sta ispirando, la nascita di altri partiti regionali, unitamente al revival di istanze federaliste che sopite durante l’arco di tempo in cui è prevalsa l’egemonia delle ideologie non avevano mai cessato di esistere all’interno di minoranze politico-culturali. L’influenza dei territori e delle regioni attraverso i partiti regionali può assumere una duplice direzione: la prima, positiva, dovrebbe essere endogena ai partiti nazionali e, riguardando la loro struttura, dovrebbe risolversi nell’apertura dell’organizzazione dei partiti stessi alle istanze della “Periferia”; mentre la seconda, negativa, non porterebbe ad un rinnovamento dell’organizzazione dei partiti esistenti, ma ad una loro implosione e frammentazione regionale (il lupo cattivo della favola). La pericolosità di questa seconda via starebbe nel fatto che al sistema partitico simmetrico attuale se ne sostituirebbe uno totalmente asimmetrico destinato a condizionare completamente il funzionamento del sistema politico nazionale. Per evitare questo pericolo molti individuano due rimedi. Il primo prevede che i partiti decidano di cambiare in senso regionale le proprie strutture organizzative per aprirsi alle istanze differenziate delle regioni, mentre il secondo prevede l’attuazione della riforma già approvata del Parlamento nazionale con la trasformazione del Senato in Camera delle Regioni. Gran parte dei partiti nazionali sembrerebbero propensi a sperimentare questo secondo rimedio, trascurando però la circostanza che la sua adozione finirebbe inevitabilmente con l’essere condizionata dalla struttura centralistica dei partiti, i quali realizzerebbero le riforme istituzionali continuando ad essere afflitti dalla preoccupazione di evitare i possibili sviluppi asimmetrici di natura istituzionale. Un reale coinvolgimento dei livelli di governo regionali alla determinazione delle politiche nazionali presuppone, dunque, non tanto una riforma istituzionale complessiva dello Stato a “sistema vigente dei partiti”, quanto una riforma attuata da partiti che si siano precedentemente regionalizzati, proceduralizzando i propri comportamenti e la realizzazione di istituzioni capaci di ridurre la diversità delle istanze territoriali nell’unicità della politica nazionale. Sin tanto che ciò non accade, come sembra stia verificandosi nel nostro Paese dove i partiti nazionali sembrano solo preoccupati di tacitare le richieste della Lega e dove i nuovi partiti regionali sembrano sorgere per mettersi “al carro” della Lega, le tensioni provocate dalla contrattazione multilaterale sono destinate a produrre non solo la continuità della crisi del sistema dei partiti, ma anche la disgregazione dell’intera nazione.
D’altra parte, occorre tener conto che gli studi avanzati sul federalismo tendono a criticare la tradizionale struttura dello Stato federale per quanto di unitario è in esso ancora presente. L’azione di governo dello Stato federale è assicurata attraverso la costruzione di una unica organizzazione dotata di sovranità ad essa delegata dagli Stati federati. In tal modo, però, limitatamente alle funzioni delegate, lo Stato federale non accoglierebbe in toto l’aspirazione all’autodeterminazione delle comunità federate. L’azione centralistica dello Stato federale, infatti, limitatamente alle funzioni delegate non implicherebbe la “rottura” della continuità del paradigma organizzativo dello Stato-nazione originario; per questa ragione, si sostiene che una compiuta riorganizzazione costituzionale in senso autenticamente decentrato di uno Stato unitario debba essere realizzata attraverso l’adozione di una confederazione di Stati regionali indipendenti, caratterizzata da una combinazione di autogoverno e di governo condiviso a livello di confederazione per le funzioni delegate. In tal modo, con la costruzione di un’unica organizzazione statuale di tipo confederale, tutti gli Stati confederati riconoscerebbero la loro reciproca interdipendenza (in alternativa all’autosufficienza), la propria eterogeneità (in alternativa alla perfetta coincidenza tra organizzazione statuale e nazione) e la multicentricità dell’esercizio del potere decisionale (in alternativa alla unicità del centro decisionale), nel senso che i centri decisionali plurimi diventerebbero elementi di una rete multicentrica diffusa nell’intera area della organizzazione confederale. E’ questa una opzione organizzativa dell’azione politica del sistema dei partiti italiani che ancora non ha trovato una prospettiva di dibattito e di negoziazione e che ancora meno ha trovato un accoglimento nel processo di disarticolazione dello Stati unitario oggi in atto. Sta accadendo così, come è stato osservato, che, a differenza del corpo umano, il quale, per sua natura, durante il suo sviluppo, conserva l’equilibrio tra le sue singole parti, facendo risultare anomala, ad esempio, la crescita di un braccio diversa rispetto alla crescita dell’altro, lo sviluppo del processo federativo in Italia risulta invece da molti punti di vista anomalo in quanto, mentre l’esperienza conoscitiva ha aperto nuove prospettive di lavoro, i partiti mostrano di essere rimasti indissolubilmente legati al passato.
Tutte le ragioni sin qui esposte rendono plausibile pensare che i partiti italiani, nella fase attuale, possano solo far nascere fondati dubbi in chi, benché autenticamente pervaso da spirito autonomista, non crede auspicabile che nel presente o nel futuro immediato sia realizzata in Italia una riforma costituzionale del Paese; ciò, per il sospetto che non esistano le condizioni soggettive ed oggettive per la realizzazione di un compiuto progetto di riorganizzazione costituzionale aperto alle istanze delle comunità regionali.
0 commenti
Non ci sono ancora commenti. Lascia il tuo commento riempendo il form sottostante.
Lascia un commento