Oggi contro la violenza sulle donne l’ANPI presenta il libro di Clara Murtas “La Grotta della vipera. Dialoghi impossibili sul femminicidio”, alla presenza dell’autrice (vedi la locandina). Ecco una recensione del libro.
Gianna Lai
Viene dal mondo indefinibile dei morti lo spirito di Atilia, nobildonna romana celebrata nei secoli per aver donato la sua vita in cambio di quella dello sposo. “Vortice di vento e polvere”, aleggia la candida figura sulla terra nei luoghi noti della necropoli cagliaritana ed assiste, presa dal gelo della morte, all’assassinio di Teresa per mano del marito, vedendone l’anima luminosa lentamente trasmigrare. Lei soltanto, inviata degli dei, segue l’evento e noi lettori insieme, attraverso l’immaginazione fervida di Clara Murtas, autrice di questo bel libro intitolato la Grotta della Vipera, edizioni ABBA 2024. Ed è già forte il primo dissidio che ci riporta alla materialità dell’evento, perché ambulanze e folla intorno alla donna, tutta quella gente accorsa improvvisamente, continuano ad aver attenzione solo per le cose terrene. Mentre, disorientata dal silenzio profondo, l’anima di Teresa abbandona il corpo leggera e senza dolore, ancora del tutto immemore e priva di coscienza. E se Atilia, svolgendo il compito assegnato dagli dei, le si rivolge con distacco ed equilibrio parlando la lingua di un tempo, è la popolana casteddaia prima di tutto a riemergere nell’immediato contrasto che sorge tra i due spiriti, quasi che la vita continui ad avere la meglio sulla morte. Siamo fra la terra e il cielo, a chi dunque parla il latino delle donne e degli uomini antichi si risponde in sardo e senza neanche troppa buona creanza, tuttavia finalmente capace, Teresa, di esplicitare una richiesta vera e propria di aiuto, “almeno sapessi che cosa mi sta succedendo!”. E di nuovo la lettrice e il lettore tirati in ballo, a conoscenza come sono di ciò che per la giovane resta ancora completamente precluso, pur svelandosi pian piano la nuova sua inedita esistenza nel duro conflitto con quel “pervicace attaccamento alla vita”. Impossibile da abbandonare la vita se non fosse per l’espediente messo in campo da Atilia, ora più pietosa e tenera: una dolce visione del Poetto al tramonto del sole, eloquente artificio in grave attrito, naturalmente, con l’umana sofferenza, l’angoscia e il pianto inconsolabile che pervade l’animo. Sarebbe come spiegare la morte descrivendola ai vivi, descrivendo a Teresa cosa è accaduto di fronte al cancello della Grotta della Vipera. E mentre persino l’autrice del libro prova pietà di questa “povera animuccia” inconsapevole, noi vediamo man mano sciogliersi il grumo del ricordo nella parola ancora guardinga e sospettosa. Quella condizione tormentata che la memoria riesce adesso con fatica a far riemergere attraverso la narrazione dei fatti e che sembra voglia sovrapporsi alla inconcepibile, talmente assurda, preghiera di Atilia alla divinità, per chiedere di morire al posto del marito. Invocazione giustificabile secondo Teresa e, francamente anche secondo noi, solo in quanto appartenente al tempo delle matrone romane, quando bastava rivolgersi all’Olimpo ed esprimere un desiderio per vederlo poco dopo esaudito. Storie dell’altro mondo, insomma, come se quell’altro mondo già lì, nel racconto di Clara, non ci comprendesse tutti quanti, personaggi e lettori insieme, anche nei cambi di scenario tesi sempre a rappresentare l’armonia del paesaggio.
Evocare adesso l’incanto della montagna, lo stupore di Teresa rende ancor più crudo il rimpianto e l’attaccamento ai beni terreni, può addirittura travolgere la stessa Atilia e portarla di nuovo a “sentire il sangue che ti scorre nelle vene, il cuore che palpita” per amore. Come se l’aura della vita avesse in lei di nuovo il sopravvento, riaprendo insieme tuttavia l’antico dolore delle donne oppresse in quel suo tempo così lontano, in nome della stessa ideologia patriarcale che determina il destino di Teresa dopo duemila anni. E se “gli uomini non vogliono proprio cambiare”, l’inebriarsi finalmente delle due anime in volo sembra chiudere il legame col mondo finito, in un processo di identificazione con lo spirito della natura volto a intendere la voce dell’acqua, la musica dei luoghi, il vibrare della montagna. Nuovo incantesimo nel distacco lento dall’immanente, forse una superiore forma di consapevolezza che porta infine alla trascendenza.
Non è un caso se, inserendo un passaggio significativo al testo già rappresentato presso la Villa di Tigellio nel 2019, regia di Rita Atzeri, Clara consenta nel finale l’irruzione in scena del marito suicida, che reclama ancora Teresa. Gli arcani a inchiodarlo in un vero processo svolto alla luce della libertà dell’amore, passando per Catullo e Lesbia attraverso le parole del poeta Tigellio.
Dal dolore il mistero del vivere, la reincarnazione a dare nuova speranza di futuro per l’anima, “nella notte abbagliante dell’oltremondo”. E cresce il libro su una presa di coscienza, quel sottotitolo Dialoghi impossibili sul femminicidio determinandone il percorso. E poi un ritorno alla realtà del luogo nella dedica finale ai giovani cagliaritani, che commentano gli amori della giornata, quelli casuali e quelli meno incerti, ancora tra i resti della villa di Tigellio.
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