Oggi Convegno: Sardegna, per un nuovo Statuto speciale. Idee, progetti e possibili processi di autogoverno

17 Aprile 2024
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18 aprile 2024 – Convegno organizzato dalla Scuola di Cultura Politica “F. Cocco”
Sardegna, per un nuovo Statuto speciale.
Idee, progetti e possibili processi di autogoverno

Hotel Regina Margherita ore 9

 

Fernando Codonesu

Premessa
Con questa introduzione intendo proporre alcune riflessioni di merito sul tema del convegno.
Dico subito che si tratta di un convegno a cui abbiamo lavorato da molto tempo, già previsto operativamente nel mese di novembre dello scorso anno e poi rimandato in quanto troppo vicino alla campagna elettorale per le regionali.
Un’affermazione preliminare è d’obbligo: autogoverno non significa secessione.
Il migliore esempio di attuazione dell’autogoverno in Italia è costituito dal Trentino Alto Adige, di cui invito a leggere lo statuto e conoscerne l’economia, la struttura delle due province, i meccanismi del sistema legislativo, le capacità operativo / gestionali, l’organizzazione sociale, istituzionale e territoriale.
Di questa regione, forse l’elemento che più mi colpisce è la diffusione equilibrata del benessere nell’intero territorio, con evidenti ripercussioni positive in entrambe le province di Trento e Bolzano.
Per quanto ci riguarda, quando parliamo di autogoverno non improvvisiamo perché i nostri riferimenti ideali tra federalismo e autogoverno si rifanno ai grandi protagonisti e pensatori della storia politica e culturale sarda e nazionale come Angioy, Tuveri, Asproni, Mazzini, Cattaneo, Gramsci, Bellieni, Lussu, Simon Mossa, Melis e i movimenti politici popolari, identitari, etno-culturali e indipendentisti attivi in Sardegna dagli anni ‘70 ai giorni nostri.
Nel convegno, il tema dell’autogoverno nella sua complessità e le sei materie di cui diremo in seguito saranno affrontate dai seguenti cinque punti di vista: politico, tecnico-scientifico, giuridico-costituzionale, economico-occupazionale e finanziario, fiscale e tributario.

Ragionare su un nuovo statuto speciale della Sardegna con un preciso orientamento verso l’autogoverno può sembrare oggi un passo temerario, al limite del velleitarismo per alcuni, tanto più se si considera la profonda crisi economico sociale che vive la Sardegna da almeno tre decenni.
Non solo, oggi abbiamo anche la presenza incombente delle riforme del Premierato e dell’Autonomia differenziata, oramai alle porte, che equivale ad una vera e propria secessione delle regioni ricche del paese.
Abbiamo anche il caso di una regione costituitasi nei primi anni ‘60 del ‘900 che non riuscendo più a garantire i servizi di base alla popolazione intende ritornare al passato, mi riferisco al Molise che vorrebbe tornare a ricostituire la regione “Abruzzi e Molise” di un tempo.
Come regione abbiamo qualche numero tragicamente importante come il record nazionale (forse europeo) della più bassa natalità e una diminuzione netta di circa 100.000 residenti negli ultimi 14 anni, nonostante gli apporti netti in termini di immigrati residenti.

Viviamo in un’isola per certi versi sempre più vecchia, demoralizzata e rassegnata, governata male negli ultimi 20 anni e ancora peggio negli ultimi cinque.
Ma attenzione, al peggio non c’è mai fine!
Eppure, nonostante questa situazione tutt’altro che favorevole, ragionare sull’autogoverno si deve e si può, innanzitutto ripensando e riscrivendo il nostro statuto di autonomia speciale.

Statuto, perché riscriverlo

Nello statuto attuale  non vi sono rimandi espliciti alle idealità dei pensatori e protagonisti della storia sarda degli ultimi due secoli, ai concetti  di popolo sardo, di cultura sarda, di autogoverno, di nazione e sovranità sintetizzati con il riferimento alla parola “Sardi”: tutte parole, queste, di cui non c’è minimamente traccia nello statuto del 1948, dove i rapporti tra la Regione e lo Stato vengono descritti, elencati, regolamentati e sostanziati esclusivamente in un rapporto tra “entità formali”.
Bisogna allora pensare ad una sua totale riscrittura che, però, passi attraverso alcune fasi intermedie come quella delle norme di attuazione che costituiscono uno strumento formidabile di cambiamento radicale dello status quo, come ha fatto proficuamente a suo tempo il Trentino Alto Adige.
Sono convinto della necessità improcrastinabile di affrontare da cinque punti di vista quella che continua ad essere nota come la “questione sarda” all’interno del rapporto centro-periferia (che riguarda ampie parti della stessa Europa), analizzato ampiamente da diverse angolazioni a partire dagli ultimi due decenni del secolo scorso.
Quando si parla del rapporto centro – periferia si assume come metodo di analisi l’insieme simultaneo delle discriminanti parametriche conosciute come le tre “d”, distanza dal centro, ovvero dai luoghi decisionali del potere, in primis, per quanto ci riguarda, da Roma e da Bruxelles; differenza per cui è opportuno chiedersi se ci sono caratteristiche specifiche di questo popolo periferico, come quelle di tipo etnico-culturale, storiche, linguistiche, antropologiche, identitarie, di popolo come nazione ancorché senza Stato, ecc.; dipendenza, ovvero quanto si dipende oggi dal centro oppure se c’è un’interconnessione economica e sociale oramai così stretta tra la Sardegna-periferia e il centro, ragione per cui sarebbe antistorico porre questo problema.
In effetti a me pare che nel rapporto Sardegna/Italia continuino a perdurare tutti gli elementi di reale distanza, differenza e dipendenza tra centro e periferia che nel 1948 portarono all’approvazione dello statuto di autonomia speciale e che, per certi versi, tali parametri si siano ulteriormente aggravati negli ultimi decenni.
Fermo restando che la scrittura dello Statuto può essere fatta nella cornice dei vincoli derivanti dalla Costituzione e dallo Statuto vigenti e che tale compito istituzionale spetta al Consiglio Regionale nelle forme politiche e organizzative che riterrà opportune, il terzo punto di vista, quello giuridico-costituzionale, dovrebbe entrare nel merito di quale statuto, con quali modalità operative e quali tempistiche in base alla Costituzione e allo Statuto vigenti, ivi comprese appunto le norme attuative, delineandone possibili soluzioni percorribili.

Autodeterminazione, autogoverno, autonomia
Per quanto mi riguarda, il diritto all’autodeterminazione dei popoli e dei singoli individui, riconosciuto dagli organismi internazionali, è il faro che deve guidare l’azione politica di tutti, a qualunque latitudine si viva e si lavori.
Il diritto all’autodeterminazione delle autonomie locali si realizza nel rispetto della Costituzione e all’interno della repubblica una e indivisibile con l’autogoverno.
La parola autogoverno non ricorre mai nella Costituzione. Ricorre solo nell’art. 2 dello statuto della Regione Veneto, una regione a statuto ordinario e in nessun altro statuto regionale.
Neanche nello statuto del Trentino Alto Adige è presente la parola “’autogoverno”, però è la regione che lo ha efficacemente realizzato e praticato, una regione con tutti i parametri economici, sociali. culturali e istituzionali che ne fanno un luogo invidiabile, con tutti i servizi per la cittadinanza distribuiti ovunque, un bel luogo dove vivere, lavorare e mettere su famiglia.
L’autogoverno si differenzia dall’autonomia perché oltre alla sfera dell’amministrazione e della gestione ha competenza primaria, possibilmente esclusiva, sul processo legislativo e impositivo. E’ con la possibilità concreta di questi ultimi due elementi che permettono di avere le “risorse” economico-finanziarie che si sostanzia l’autogoverno, altrimenti si torna all’ambito più limitato dell’autonomia e del decentramento amministrativo.
Autonomia e decentramento amministrativo che, nella migliore delle ipotesi, hanno caratterizzato questi 75 anni di autonomia speciale della Sardegna con i risultati che conosciamo.

Periferie urbane, periferie territoriali
Le periferie vanno riportate al centro dell’attività politica, economica e sociale.
Le periferie, sia quelle urbane che quelle territoriali che caratterizzano le nostre società, non dovrebbero proprio esserci se vogliamo tendere a realizzare quel principio di uguaglianza tra gli uomini e tra tutti i luoghi del vivere dove poter godere dei diritti di cittadinanza.
Nessun territorio della nostra repubblica è periferia quanto la Sardegna, sempre più isola delle disuguaglianze, con decine di paesi senza servizi sanitari di base e senza scuole degne di questo nome, con trasporti interni inesistenti, sfruttata come una colonia italiana delle servitù militari e della produzione e sperimentazioni di bombe e armamenti per conto dell’intera NATO, con un popolo Sardo a cui è stata compressa e negata l’identità con l’obiettivo politico di impedirne la consapevolezza di essere Nazione.
Non solo servitù militari,  ma oggi anche servitù energetiche con un disegno neocoloniale sullo sfruttamento delle energie rinnovabili da parte delle multinazionali e delle grandi aziende nazionali dell’energia, con autorizzazioni alla realizzazione degli impianti rilasciate direttamente dal governo che bypassano le competenze della Regione, nonostante lo Statuto di autonomia speciale vigente ne preveda ancora alcune competenze primarie.
Ogni processo di cambiamento ha bisogno di concretezza e per questo riteniamo che un approccio integrato alle sei materie dai cinque punti di vista indicati permetterà di individuare proposte realistiche, indicando anche le risorse economiche e finanziarie per la loro realizzazione, immediatamente percorribili dalle istituzioni elettive e da tutti i luoghi decisionali preposti alla guida della Sardegna.

Le sei materie tra regionalismo e ri-centralizzazione
Le sei materie sulle quali va fatto un ragionamento di insieme riguardano l’Ambiente, l’Energia, il Governo del Territorio, il Paesaggio, l’Urbanistica e i Trasporti: non possono essere trattate separatamente l’una dall’altra.
Per l’energia auspichiamo una Sardegna totalmente rinnovabile con un sistema energetico largamente distribuito costituito da una numerosità di impianti tale da soddisfare ogni bisogno energetico della regione.
Ci sono tutte le condizioni perché in Sardegna si intraprenda tale strada: con l’autogoverno si può evitare l’assalto al sole e al vento della nostra terra da parte delle multinazionali e delle imprese nazionali che non lasciano alcuna forma di ricchezza sui nostri territori.
Lo Statuto ci riserva sulla produzione e distribuzione dell’energia delle competenze esclusive che vanno esercitate: si può e si deve farlo.
Tali competenze, per esempio, vanno utilizzate per sottrarre ad Enel, oggi società privata quotata in borsa con lo Stato azionista con circa il 23,5%, la gestione di tutte le centrali idroelettriche che producono energia con l’acqua appartenente al demanio regionale.
Quindi non solo energia dal sole e dal vento, ma anche dall’acqua e perché no, anche dalla geotermia ancorché a bassa temperatura, così come dal moto ondoso.
Sull’energia come sulle altre materie è opportuno verificare l’evoluzione/involuzione che ha avuto il diritto regionale.
Si può rispondere che negli ultimi tre decenni del secolo scorso il diritto regionale ha avuto un notevole sviluppo.
Si è fatto un significativo passo avanti con l’art. 114 e con la giurisdizione sul regionalismo a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, ma se si guarda al contenzioso tra Regioni/Stato sulle tante materie di intervento governativo in questi decenni a partire dall’energia (concorrente) e finire con l’urbanistica (solo regionale), l’intervento del legislatore statale, poi prontamente ratificato dalla Corte (le eccezioni non fanno la regola) è sempre stato quello di un ridimensionamento del diritto regionale. Questo ha comportato il venir meno dell’ispirazione di fondo della Carta basata sulle autonomie locali e specificatamente sulle regioni, in analogia con la costituzione spagnola, unico altro modello simile in Europa.
Per esempio il diritto regionale sull’urbanistica, che è materia esclusivamente regionale, è comunque compresso e limitato anche con maglie estremamente strette perché tocca aspetti del Governo del territorio (concorrente), dell’Ambiente (Stato), del Paesaggio (la tutela è dello Stato, la fruizione e gestione pur regionali sono concorrenti di fatto), i Trasporti (concorrente), ecc.
E quando si parla di urbanistica dobbiamo ripensarla totalmente mettendo al centro “le periferie” che devono avere la stessa cura e attenzione di ogni parte della/e città.
La stessa “cura e attenzione” che ci devono permettere, per estensione, di avere una programmazione qualitativamente uniforme di servizi e opportunità in ogni parte e luogo della Sardegna, intesa come insieme di luoghi urbanizzati e campagne.
Riparlare di servitù militari in una prospettiva di autogoverno prevedendone una progressiva dismissione vuol dire mettere mano alla vasta tematica del Governo del territorio che a sua volta incide e si interseca con l’Urbanistica.
E il Governo del Territorio non può essere scisso dai Trasporti, verso l’esterno dell’isola e verso le aree interne, che non devono essere concepiti solo in termini di profitto, ma di equilibrio economico e sociale. E quando si parla di Trasporti caratterizzati da un equilibrio di tipo sociale bisogna comprendere e accettare che lo si garantisce anche con alcune “linee” in perdita.
E mi chiedo se vogliamo rivisitare, riperimetrare, rivalorizzare e riattualizzare ai nostri giorni tutti i terreni che in Sardegna sono classificati come “usi civici”, vastissime aree di grande interesse sotto tanti punti di vista.
Al riguardo, per fare un esempio, forse che il diritto di legnatico dei tempi andati non potrebbe essere oggi sostituito con le stesse finalità per la produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile da destinare alle singole comunità locali, magari nella prospettiva della realizzazione di una unica comunità energetica regionale?
In quanto guidati dalle tre “d” e con l’aspirazione a rovesciare il paradigma centro-periferia, i territori e i vari luoghi in cui si estrinsecano la vita e le diverse attività umane vanno ripensati con tutti i servizi connessi, come “entità cooperanti” e non come “entità concorrenti”.
Al riguardo si sottolinea che il pensiero delle entità concorrenti è quello insito nel liberismo che ha portato all’aziendalizzazione esasperata della sanità nazionale che, a 46 anni dalla nascita del SSN di tipo universale, è oggi sempre più caratterizzato dalla privatizzazione e dalla subordinazione ideologica, economica e culturale al privato.
E da qui si torna immancabilmente ai Livelli Uniformi delle Prestazioni che devono essere garantiti dallo Stato laddove la competenza sia dello Stato, come è auspicabile che sia per la Sanità e l’Istruzione, in contrapposizione ai LEP, Livelli Essenziali delle Prestazioni, che non fanno altro che aumentare le disuguaglianze territoriali e tra i cittadini.
L’uniformità delle prestazioni dei servizi, di tutti i servizi a garanzia dei diritti di cittadinanza, ci viene dalla nostra Costituzione e su questo bisogna far leva in tutte le nostre azioni politiche.
Sulla sovranità popolare
Oggi chi è il sovrano e dove sta la sovranità?
Circa il 50% dell’elettorato non vota non per questioni legate alla scolarizzazione e alla cultura come ci ricorda un “sempre verde” professore a disposizione di tutti i governi da circa 40 anni, non si vota semplicemente perché non ci si crede più.

Meno indagata, appunto, se non in qualche rivista e circolo strettamente specialistico, la questione della democrazia e della sovranità ai vari livelli rappresentativi della volontà popolare, ad iniziare da quello più alto, lo Stato, in un periodo ormai ventennale di progressiva sfiducia e disaffezione della partecipazione al voto.

Innanzitutto sicuramente c’è l’impossibilità di scelta dei propri rappresentanti in quanto i candidati sono sempre oggetto di trattativa e scelta degli apparati di potere che comandano nei partiti. Da qui deriva che non si ha alcuna scelta trasparente e diretta dei candidati da parte della cittadinanza: questo è ciò che viene servito alla cittadinanza.
Perché un elettore dovrebbe ratificare scelte effettuate nelle segrete stanze, frutto di alchimie e mirate sempre ad interessi di gruppo o di parte, ben lontane dal rappresentare il bene pubblico?
E quando siamo stati chiamati a votare per qualche referendum, come quello sulle province, quegli stessi partiti proponenti la loro abolizione le hanno riportate in vita: da enti morti a enti risorti!
O come l’altro sul nucleare da fissione, ora di ritorno perché ribattezzato di quarta generazione con la benedizione della Commissione europea, ancorché nel nome dell’interesse della Francia.

E sulle elezioni, non si vota più non solo alle politiche ma anche nelle comunali, quelle più vicine alle esigenze dei cittadini. Eh, già, quelle che qualcuno vorrebbe traslare direttamente sulla scala nazionale con l’elezione del cosiddetto Sindaco d’Italia nel nome della stabilità dell’azione di governo.
Da quando c’è l’elezione diretta del Sindaco ad oggi vi è stato un calo di votanti fino al 20%. Nel 1993 aveva votato il 79% degli aventi diritto al voto,  il 14/15 maggio 2023  ha votato il 59%.
Il partito del non voto era al 21%, oggi è oltre il 40% anche nelle elezioni comunali.
E’ vero, l’elezione diretta del Sindaco dà stabilità all’amministrazione comunale, ma allo stesso tempo, e questo non può essere accettato, vanifica, mortifica, rende irrilevante e annulla il ruolo dell’opposizione.
Il Sindaco vincente prende tutto, anche il banco!

Peraltro, dal mio punto di vista ogni meccanismo elettorale che prevede un premio di maggioranza, come quelli previsti dall’attuale legge elettorale nazionale, quella della regione Sardegna e prima ancora quelle comunali relativizzano il peso del voto: non siamo più uguali. Il valore del voto del singolo cittadino al raggruppamento che diventa maggioranza è più alto di quello dato al raggruppamento di minoranza.
Un controsenso se si ragiona sull’art. 3 della Costituzione: “Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. …”.

Ci sono ovviamente anche altre motivazioni che hanno allontanato la cittadinanza dal voto, ma le ragioni più squisitamente politiche sono quelle appena delineate.
Ma cosa comporta tutto questo come riflesso sulla sovranità?
Se è vero, come è vero, che per la Costituzione italiana la sovranità non è più nel (del) sovrano ma è nel (del) popolo costituente e che il popolo è costituente nel momento in cui si esprime con il voto eleggendo i propri rappresentanti ai diversi livelli, allora le elezioni rappresentano il termometro e il termostato della democrazia italiana. Allora il fatto che il risultato ultimo sia che da tempo si viene eletti da “una minoranza” conduce alla ratifica di un fatto singolare: c’è una minoranza che governa lo Stato o che amministra la Regione, il Comune e gli altri ambiti di rappresentanza nei quali si esplica la sovranità popolare.
Anche su questo punto allora vale quanto detto prima, se vota una minoranza, la maggioranza che deriva da questa minoranza di votanti mina il principio sostanziale su cui si regge l’ordinamento repubblicano e la rappresentazione della sovranità popolare, o quanto meno lo mette in grave pregiudizio.
Infatti, nel costituzionalismo è ampiamente riconosciuto che il popolo è costituente se vale il “principio di maggioranza nella rappresentanza”.
Il principio di maggioranza presuppone che proprio la maggioranza dei cittadini “sovrani” e quindi “liberi” si esprimano nel voto: solo in questo caso diventano costituenti e dal mio punto di vista si può parlare per estensione di “popolo sovrano”.

Considerato che il principio di maggioranza non c’è più, di cosa parliamo?
La nostra, mi vien da dire quella di gran parte dei paesi occidentali ad incominciare dagli USA, è ancora democrazia o possiamo parlare di post democrazia, democratura (pur senza oligarchi alla russa), regime di una minoranza “legittimata” comunque dal voto?
Insomma, molte cose e concetti vanno rianalizzati e ripensati: guai ad accontentarci dello status quo!

Continuando nel ragionamento, se la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato (art. 114 Cost., come modificato dalla legge 3 del 2001), la deduzione è semplice: la sovranità è in capo allo Stato nel rapporto con gli altri Stati, è in capo a tutti gli altri Enti nei rapporti interni e nelle relazioni tra Stato ed Enti Locali.
A me pare che con questo articolo finalmente la Costituzione riconosce che le autonomie locali sono “enti esponenziali delle comunità territoriali di riferimento”, come si ama dire in linguaggio giuridico-costituzionale. E da qui deriva anche che per poter esprimere a pieno il proprio ruolo le autonomie locali devono realizzare l’autodeterminazione su alcune materie che non possono essere più gestite concorrenzialmente con lo Stato.

E aggiungo ancora una considerazione essenziale sullo Stato centrale quale garante del diritto di cittadinanza, ovvero dell’insieme dei diritti che permettono alla società di dispiegare tutte le proprie potenzialità nell’equilibrio dei diritti e dei doveri di ciascuno di noi.
E’ lo Stato che garantisce la cittadinanza, ma sono i cittadini che danno allo Stato la propria ragione d’essere. Si tratta di una corrispondenza biunivoca e senza l’uno, lo Stato, non c’è il cittadino, ma allo stesso tempo, senza il cittadino non c’è lo Stato e men che meno c’è la sovranità a tutti i livelli di rappresentanza.
Allora lo Stato ci deve mettere nelle condizioni di dispiegare pienamente i diritti della cittadinanza.
Meglio ancora sarebbe godere pienamente dei diritti della cittadinanza europea, convinto come sono che una federazione europea con una sua costituzione, possa garantire al meglio la cittadinanza del singolo.
Ecco perché assume grande rilevanza ora più di prima l’approvazione di una legge elettorale di tipo proporzionale, come è quella europea, estesa alle elezioni politiche e agli altri livelli elettorali.
Anche su questo punto si misura concretamente la capacità e volontà di autogoverno della Regione.
Anche per queste semplici ragioni sono favorevole alla riscrittura dello statuto di autonomia speciale, all’attuazione dell’autogoverno, in alcune specifiche materie oggi concorrenti con lo Stato, da parte della Regione Sardegna e alla prospettiva del federalismo statale come previsto dalle costituzioni della Svizzera, della Germania e degli USA, che non mi risulta abbiano problemi in quanto a “unicità e indivisibilità” dello Stato, come ripetutamente ed erroneamente ricordato dai sostenitori dello “status quo” nel dibattito giuridico e politico italiano.

Sulle risorse economiche e finanziarie
Qualunque progetto si può realizzare solo se si dispone di risorse economiche adeguate. Fondamentalmente abbiamo due tipologie di risorse ovvero i trasferimenti che a vario titolo arrivano dallo Stato e dall’Europa e quelle quelle che riusciamo a generare localmente. Con le risorse disponibili si provvede a fare investimenti che a loro volta generano ulteriori risorse sia materiali che immateriali e spesa corrente che viene utilizzata fondamentalmente per assicurare i servizi ai cittadini.
Come detto, sul fronte delle risorse disponibili la Regione dispone di varie fonti di entrata in relazione ai trasferimenti: il problema è la capacità di programmazione e di spesa della Regione che, purtroppo, è alquanto deficitaria come dimostrano i rilievi che annualmente fa la Corte dei Conti. Dice infatti la Corte con riferimento alle annualità 2021/22 riporta “ Il fondo cassa è infatti di 2,9 miliardi di euro, ben superiore rispetto ai 2,3 certificati alla fine del 2021 … sono presenti anche nel 2022, risultando in costante peggioramento, aspetti legati alla difficoltà di programmazione e spendita delle risorse, problematica che poteva trovare qualche giustificazione nel contesto dell’emergenza sanitaria nel 2020 e 2021, ma non replicabile per l’esercizio in esame”.
Ci sono poi le risorse generate localmente che possiamo qualificare semplicemente come
capacità imponibile generata dalle imprese e dalle famiglie. Un’isola che perde abitanti e che non ha un progetto di sviluppo serio rischia di fare la fine della regione Molise: ci vuole un’inversione di rotta per generare nuova ricchezza.
Sui meccanismi di riscossione le possibilità strumentali sperimentate a livello nazionale sono due. La riscossione diretta come fatto per decenni dalla Regione Sicilia e ora accantonata definitivamente e quella attraverso l’Agenzia delle Entrate. Fatte salve le capacità di riscossione diretta da parte delle province di Trento e Bolzano, allo stato attuale la riscossione dei tributi locali avviene dappertutto con il ricorso all’Agenzia delle Entrate. Non vi sono più in Italia esempi di riscossione dei tributi direttamente da parte delle Regioni, segno questo non solo dei tempi ma dell’impossibilità o non  convenienza per l’attuazione di un simile strumento.
Il convegno si propone di delineare un quadro molto preciso su questo tema, sia sull’insieme delle risorse disponibili sul fronte delle entrate che sulle capacità di programmazione e spesa, ovvero sulle uscite.
E’ questa una “conditio sine qua non” per qualunque progetto di sviluppo, a maggior ragione se si procede verso possibili processi e percorsi di autogoverno.

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