Con i pm o contro i pm? Il dilemma di Meloni

5 Ottobre 2023
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Pubblichiamo un altro commento all’esternazione della Meloni contro l’ordinanza del Tribunale di Catania sui migranti.

La premier Giorgia Meloni

La premier Giorgia Meloni

 

Aggiornato, 4 ottobre, 2023 • 07:07

«Non c’è nessuno scontro con la magistratura, lo voglio ribadire anche questa volta». A ventiquattro ore dall’attacco a Iolanda Apostolico - la giudice che venerdì scorso ha di fatto smantellato con una sentenza il decreto Cutro, non convalidando i provvedimenti di trattenimento emessi nei confronti di quattro cittadini tunisini - Giorgia Meloni torna sul “luogo del delitto” e prova a minimizzare l’entità dello scontro con un altro potere dello Stato.

«Semplicemente la magistratura è libera di disapplicare una legge del governo e il governo è libero di dire che non è d’accordo», taglia corto la presidente del Consiglio. Eppure, per quanto la premier tenti di riportare il conflitto all’interno di una dialettica routinaria, è evidente che qualcosa è cambiato, forse per sempre, nel rapporto tra la leader di Fd’I e le toghe. Le accuse di partigianeria sovversiva rivolte alla magistrata catanese (favorire «l’immigrazione illegale») non possono finire sotto traccia. E non solo perché una parte dell’associazionismo togato non intende farle passare in cavalleria, ma soprattutto perché non è la prima volta che Meloni, cresciuta nel mito di Paolo Borsellino, decide di criticare aspramente - e dal pulpito della presidenza del Consiglio - le scelte di un magistrato. Era accaduto anche a luglio, quando non meglio precisate “fonti di Palazzo Chigi” si erano scagliate duramente contro la gip di Roma Emanuela Attura, “colpevole” di aver disposto l’imputazione coatta nei confronti del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, nell’inchiesta relativa al caso Cospito.

«È lecito domandarsi se una fascia della magistratura abbia scelto di svolgere un ruolo attivo di opposizione. E abbia deciso così di inaugurare anzitempo la campagna elettorale per le elezioni europee», era il testo anonimo fatto circolare in quei giorni dall’underdog nel frattempo salita sullo scranno più alto della politica italiana. Una sfida a viso (quasi) aperto alle toghe che avevano osato ledere la maestà di un esponente del governo nonché fidatissimo compagno di partito della premier. Una sfida alla quale una parte della magistratura organizzata aveva risposto col deposito di una pratica a tutela della collega “aggredita” - ancora pendente e non calendarizzata - al Comitato di presidenza del Csm. Era dovuto intervenire il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a scongiurare un conflitto aperto tra poteri dello Stato, incontrando a sorpresa i vertici della Corte di Cassazione, la prima presidente Margherita Cassano e il procuratore generale Luigi Salvato.

Il Quirinale, probabilmente, non poteva immaginare che quello scontro si sarebbe riproposto solo pochi mesi dopo. Né poteva sapere che qualcuno, all’interno della stessa maggioranza di governo, avrebbe utilizzato quella rissa per “minacciare” una riforma della giustizia. Come il vicepremier Matteo Salvini, che ha commentato così la sentenza di Catania: «Chi ha la coscienza pulita non si fa intimidire. Ed è con questo spirito che faremo la riforma della giustizia, con separazione delle carriere e responsabilità civile dei magistrati che sbagliano». Ma un conto è proporre una riforma per sciogliere le contraddizioni del sistema giudiziario italiano e tutelare al meglio i diritti dei cittadini, un altro è sventolare come un manganello su un potere dello Stato lo spauracchio di una riorganizzazione punitiva. È un approccio che non può portare a nulla di buono - come dovrebbero aver insegnato vent’anni di berlusconismo - una prova muscolare che nulla ha a che fare con la politica, men che meno con una necessaria e ragionata riforma della giustizia.

E chissà se la stessa Meloni aveva calcolato l’entità del polverone che avrebbe sollevato con le sue parole in libertà nei confronti di una sentenza prima di pronunciarle. Proprio lei, che fino a questo momento sembrava voler frenare le spinte riformatrici provenienti dai suoi ministri e alleati. Chissà se la premier, fino a ieri impegnata ad annacquare le idee radicali di Carlo Nordio, si è resa conto di aver acceso il fuoco accanto a una santabarbara pronta a esplodere nella sua maggioranza. Tra quanti, come i maggiorenti di Forza Italia, spingono da sempre per stravolgere il sistema giudiziario italiano, e quanti, soprattutto dalle parti della Lega, utilizzeranno questo tema come arma per mettere in difficoltà proprio la presidente del Consiglio davanti al suo elettorato di riferimento.

Sarà l’ennesimo e complicatissimo rebus da risolvere per una leader già all’angolo su mille altri fronti - dai conti che non tornano agli scontri furibondi con la Germania - e in già piena campagna elettorale per le Europee. Prima o poi dovrà scegliere - alla larga da istinto e propaganda - chi vuole essere da grande. Anche in tema di giustizia.

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