Pubblichiamo, perché enunclea una posizione importante per tutto il movimento democratico e pacifista del nostro Paese, la
Relazione di Gianfranco Pagliarulo al Comitato nazionale ANPI del 29 ottobre 2022
Viviamo un tempo di cose straordinarie. Per questo svolgiamo oggi il terzo Comitato Nazionale nel giro di poco più di 40 giorni. Il 17 settembre abbiamo discusso sulla campagna elettorale, il 1° ottobre abbiamo analizzato l’esito del voto e i nostri compiti ed adesso apriamo una riflessione sul nuovo governo.
Se il buongiorno si vede dal mattino, i primi segnali sono preoccupanti. Mi riferisco alla confusa proposta di elevare il cash fino a un possibile tetto di 5.000 euro, alla liberalizzazione delle cautele anticovid, rispetto a cui il Presidente della Repubblica è intervenuto in palese chiave critica, alle preoccupanti dichiarazioni del nuovo ministro dell’Interno Piantedosi che, dopo le cariche alla Sapienza di Roma, ha affermato di “monitorare i professionisti della sommossa”, e ancora all’annunciato blocco delle due navi
Ong. Ma queste sono tessere, dettagli di un cambiamento profondissimo che avverrà presumibilmente da oggi in poi come avevamo ovviamente immaginato alla luce dell’esito elettorale. A maggior ragione, dopo la formazione del governo Meloni, non dobbiamo cadere nella trappola né del catastrofismo, cioè della disperazione, né della minimizzazione come se osse possibile continuare con l’ordinaria amministrazione. Siamo pienamente consapevoli della rottura avvenuta, e cioè un governo ad egemonia di estrema destra che presenta un programma, sia pur ancora parziale e contraddittorio, conforme alla sua natura.
I nuovi Presidenti della Camera e del Senato sono personalità dell’estrema destra, uomini di frontiera, alla Camera un oscurantista dichiarato e al Senato un uomo di storia, cultura e princìpi di origine fascista. Essi, come rappresentanti delle istituzioni, vanno pienamente rispettati. Ovviamente diverso è il giudizio sulle persone e sulle loro biografie. Va comunque ricordato che le elezioni sono state vinte da un’alleanza a trazione sovranista e conservatrice, e che chi dà le carte nell’alleanza è una formazione politica che non ha mai sciolto definitivamente il legame ancestrale col Movimento Sociale. La stessa occupazione dei due incarichi da due uomini della maggioranza non è una novità perché quantomeno dal 1996 chi ha vinto le elezioni decide entrambe le caselle.
Aggiungo che non dobbiamo meravigliarci di una sorta di fascino discreto, sotterraneo direi, del fascismo e dell’oscurantismo, perché questo è il vento che spira forte sull’intera Europa, come documentato nel recente convegno promosso dalla FIR e dall’Associazione dei partigiani serbi a Belgrado. Non c’è da stupirsi quindi della seduzione che può esercitare una donna ancora giovane, di origini modeste, che arriva al più alto scranno del potere esecutivo con una biografia di impegno politico dal suo punto di vista coerente. Viene vista come una donna che si fa da sé con intelligenza e passione e così si afferma una “self made woman”, con un pizzico di mito americano e un pizzico di emancipazione.
Ma la persona è ancora più complessa perché, come vedremo, per quel che si capisce dal suo discorso programmatico, potrebbe presentarsi come una specie di signora Thatcher 2 seppure in salsa romana. Ma ancora di più la Meloni cerca di proporsi come rappresentante del popolo-nazione incarnando una sorta di nuova Evita Peron che non a caso ha uno dei posti d’onore nel Pantheon dell’estrema destra italiana. Uso volutamente le parole “popolo” e “nazione” perché la parola nazione ricorre consapevolmente nei suoi discorsi in contrapposizione e in concorrenza con le altre nazioni e con gli altri popoli.
Il problema non è la parola in sé, fra l’altro citata, sia pur in accezione diversa, in Costituzione, ma l’uso che ne fa la Meloni come la dimensione in cui si superano le contraddizioni sociali e si immagina un popolo indistinto, unito, privo di conflitto sociale e contrapposto a qualsiasi avversario.
Rimane però la contraddizione fra la freschezza di questa signora e il suo governo, prevalentemente di maschi, ceto politico, espressioni di un altro tempo politico e perciò retrogradi e superati. Non è affatto un governo di alto profilo.
La grande assente nei suoi discorsi programmatici è stata la nuova legge di bilancio. Solo quando sarà presentata sarà possibile capire, in concreto, gli orientamenti economico-sociali che intende dare al nostro Paese. Per ora sono però chiare le linee che ha esplicitamente avanzato Giorgia Meloni. La chiave di lettura principale mi pare che sia il contrasto fra quella che lei ha chiamato democrazia decidente come modello di forma dello Stato contrapposta a quella che ha chiamato democrazia interloquente. In queste parole c’è l’enfasi della governabilità senza disturbare il manovratore, portando alle estreme conseguenze un processo di spostamento della centralità dalla rappresentanza alla governabilità avviatosi da circa trent’anni.
Credo che noi dobbiamo tenere la barra ferma sostenendo la democrazia costituzionale che è per sua natura assieme interloquente e decidente attraverso un equilibrio fra rappresentanza e governabilità e attraverso una rigorosissima divisione dei poteri. Abbiamo fatto bene a immaginare una campagna o comunque una priorità che ponga al centro il tema della difesa e dello sviluppo della democrazia costituzionale. L’incarnazione della democrazia decidente, come in sostanza ha detto Giorgia Meloni, è il semi-
presidenzialismo a cui aggiunge, per ovvii motivi di alleanze, l’autonomia differenziata, temi sui quali, come è noto, da tempo ci stiamo armando per un futuro contrasto politico e civile forse più ravvicinato del previsto.
Il secondo punto in merito al suo discorso di insediamento è questo. Ha detto: Non ho mai provato simpatia o vicinanza nei confronti dei regimi antidemocratici, fascismo compreso”. Non provare simpatia è ben diverso che condannare, rompere. Ho dichiarato che si tratta di una frase di circostanza, il minimo sindacale. Nella frase successiva la Meloni ha
riproposto il mantra dell’equivalenza dei regimi antidemocratici novecenteschi, che richiama la risoluzione del Parlamento europeo del 2019 in cui si attribuisce al Patto Molotov-Ribbentrop la causa della Seconda guerra mondiale. Ferma rimanendo la critica a tutti i regimi antidemocratici, è evidente che si rimuove la specificità dei regimi nazifascisti e cioè la violenza come legittima forma della politica, la visione gerarchica della società, cioè l’apologia della diseguaglianza, il razzismo come connotazione inseparabile dei fascismi, il nazionalismo, cioè la degenerazione del patriottismo. Tant’è vero che la Meloni inorridisce davanti alle Leggi razziali come se non fossero nel DNA del fascismo a partire dal razzismo anti-slavo degli anni 20 e quello anti-africano al tempo dell’Impero. Non solo: parlando in Spagna all’iniziativa di Vox si è distinta nella crociata antislamica denunciando il pericolo dell’invasione dei barbari, facendosi portavoce di uno dei volti delle nuove discriminazioni.
Cosa non c’è nelle parole della Meloni? Non c’è alcuna condanna della marcia su Roma. Nell’accenno al tempo della strategia della tensione si sottintende l’assassinio di Ramelli ma non ci sono le violenze, gli omicidi e lo stragismo fascista degli anni 70. Bene ha fatto l’on. Roberto Scarpinato a intervenire con una dura requisitoria su questo tema.
Rimane la fiamma nel simbolo del partito e cento altri segnali che rivelano il culto delle origini. Detto questo, va sottolineato che affermare che Fratelli d’Italia è un partito tout-court fascista è a mio avviso un grave errore non solo perché allo stato delle cose non utilizza la violenza come forma legittima della lotta politica, ma anche perché il fascismo storico, regime terroristico e reazionario di massa e assieme biografia della nazione, per citare Togliatti e Gobetti, aveva una visione dello Stato – “tutto nello Stato, niente al di fuori
dello Stato, nulla contro lo Stato”, parole di Mussolini del 28 ottobre 1925 – che non sembra oggi la linea della Meloni, che infatti ha affermato: “Il motto di questo governo sarà: non disturbare chi vuole fare”. È liberismo puro, l’esaltazione del mercato che si autoregola, zucchero e miele per Confindustria. Ma a ben vedere questa è la ricetta che ha condotto l’Italia al declino negli ultimi trent’anni. Non è stata presentata alcuna idea di politica industriale limitandosi a sottolineare la centralità del turismo, della bellezza,
del made in Italy. Certo che queste doti vanno valorizzate, ma un Paese come il nostro non si può reggere solo sulla laguna di Venezia, la Cappella Sistina e i vestiti di Armani. Assieme, però, non si può negare che la mancanza di indirizzo della politica industriale è una tara storica di tutti gli ultimi governi italiani.
A tutto ciò vanno aggiunte le proposte sulla flat-tax, l’attacco al Reddito di cittadinanza, il contrasto al salario minimo, il condono, l’idea meritocratica della scuola. Si tratta di un insieme di segnali che prefigurano una società più o meno rigorosamente divisa in ceti, priva di ascensori sociali, insomma liberismo e gerarchia sociale.
C’è anche da supporre, sul breve periodo, un atteggiamento per così dire dimesso nei confronti dell’Unione Europea, certo con qualche impuntatura, ma senza la prosopopea nazionalista dei mesi e degli anni scorsi.
Il futuro dell’Unione europea dipenderà dai rapporti di forza nelle istituzioni europee e anche dal se e dal come si creeranno delle sinergie europee fra forze moderate e forze radicali di destra. Sia chiaro che la situazione nell’Unione Europea è pessima non solo perché siamo in presenza di un continuo rafforzamento delle forze cosiddette sovraniste, ma anche perché non c’è oggi alcuna guida politica degna di questo nome. Siamo davanti ad una direzione acefala, senza alcun segnale di autonomia, di strategia, di futuro, dove l’Unione di fatto coincide con la NATO. Mi riferisco a Ursula von der Leyen, Josèp Borrell, Charles Michèl, Roberta Metsòla..
In questo scenario c’è da temere che non oggi ma domani, una volta aggiunta una determinata massa critica, le forze sovraniste, sostenute da un Paese fondatore, provino a cambiare radicalmente i connotati dell’Unione riducendola più o meno a un’alleanza fra nazioni. Nazioni, appunto. Sulla guerra la Meloni ha ribadito le posizioni atlantiste peraltro comuni a quelle del governo Draghi con tanto di telefonata al più potente, il Presidente
americano. Vorrei sottolineare che non si tratta di una scelta sofferta, di un compromesso, di una necessità diplomatica, e neppure di una conseguenza della guerra in corso; infatti una parte della destra radicale italiana da tempo è profondamente connessa agli Stati Uniti d’America ed alla Nato. Non sto qui a ricordare, fra i tanti rimossi a causa della guerra, gli strettissimi e pluridecennali rapporti dell’eversione nera, e più in generale dei circoli
dell’estrema destra, con la Nato. C’è da notare che a proposito della guerra la Meloni non ha mai pronunciato le parole “trattativa” o “negoziato”, difformemente dalla recente dichiarazione del Presidente della Repubblica.
Come lei stessa ha specificato, la Meloni si propone a capo dei conservatori; non a caso è presidente dei conservatori e riformisti europei. Dovremo analizzare meglio che significato dà a questa parola, che è molto cambiato negli ultimi anni. Conservatore è l’ex leader inglese Johnson. Conservatrice è Liz Truss, meteora nel firmamento politico inglese, entrambi caratterizzati da una radicalità estranea al tradizionale costume dei Tories. Neocon è il nome della corrente conservatrice americana incarnata dal punto di vista politico da Bush Junior e dal suo governo, quelli dell’esportazione della democrazia. A
suo modo è conservatore Donald Trump, l’uomo di “american first”. Nella prima metà degli anni Venti in Germania sorse il fenomeno culturale della rivoluzione conservatrice come reazione alla repubblica di Weimar e sotto la bandiera della mistica – appunto – della Nazione. Oggi i connotati della parola “conservatore” sono indefiniti e sono caratterizzati da note di oscurantismo, nazionalismo e in qualche caso isolazionismo. C’è da immaginare che Giorgia Meloni proverà a interpretare una via italiana al conservatorismo, meglio, alla rivoluzione conservatrice, alimentandosi con l’esperienza polacca, ungherese, spagnola per quanto riguarda Vox. Colpisce infatti nelle sue parole la ricorrenza del termine “dovere” e l’assenza del termine “diritti”. Un termine che in primo luogo rivolge a se stessa: “ho il dovere di”, cercando così di proporre un modello positivo di politica, come
servizio e missione; ma in secondo luogo rivolge questa parola al Paese, alla Nazione, come evocando una stretta. Nonostante le affermazioni rassicuranti, la nuova denominazione del Ministero delle Pari Opportunità, Ministero per la Famiglia, Natalità e Pari Opportunità, e la biografia del ministro Eugenia Roccella, aprono pericolosi varchi contro i diritti delle donne. È sicuramente a tema la questione dei diritti sia civili che sociali.
Non dico niente sulle dinamiche interne alle forze di governo che comunque rivelano nodi e contraddizioni, segnalano vincitori, vinti e compromessi.
Accenno alla situazione dell’opposizione, e cioè del PD, dei 5Stelle e del cosiddetto terzo polo. Il PD si trova in una situazione di drammatica inazione per una dialettica interna che immagino sia conosciuta da tutti voi e su cui non mi soffermo. È invece all’attacco il partito di Conte. Ma ciò che colpisce in questa situazione è l’alto livello di tensione tra queste tre forze e, in alcuni casi, le linee politiche diametralmente opposte. Dalla situazione economico-sociale alla guerra, Conte e Calenda dicono l’uno il contrario dell’altro, mentre
non è assolutamente chiaro quali siano oggi le linee del PD.
Io penso che dobbiamo essere realisti essendo impensabile a breve termine una ricomposizione delle contraddizioni. Assieme, senza fare i primi della classe, dobbiamo provare a proporre su alcune cose concrete una linea unitaria. Penso alle leggi antifasciste che il PD ha già ripresentato; ci incontreremo nei prossimi giorni con alcuni parlamentari PD al proposito. Ma dovremo muoverci come in una cristalleria perché è evidente che le divisioni in atto fra i partiti non saranno facilmente superabili.
Abbiamo parlato della questione dell’antifascismo il 1° ottobre, quando ho detto che esso non è più propriamente egemone nella società e nelle istituzioni. Val la pena tornare sull’argomento. Credo che sia giusto domandarsi da dove derivano le cause delle difficoltà dell’antifascismo oggi e cercare delle risposte comuni con la massima franchezza. Aggiungo però, per essere chiari, che l’antifascismo mantiene ancora una significativa tenuta ideale e pratica. Basti pensare non solo al 25 aprile 2022, ma anche alla
grande partecipazione a tutte le iniziative in occasione dell’anniversario della marcia su Roma, ultima quella di ieri, voluta dall’ANPI, a Predappio.
Sulle difficoltà dell’antifascismo: da più di trent’anni sono avvenuti comportamenti, dichiarazioni e specialmente fatti, alle volte grandi, alle volte apparentemente piccoli, che prima hanno avviato uno smottamento, poi una slavina e poi una valanga.
Ricordiamo tutti il discorso di insediamento del Presidente della Camera Luciano Violante del 10 maggio 1996. Io penso che quel discorso e tanti eventi avvenuti successivamente avessero un lato, immagino, nobile, e cioè il tendere a destrutturare l’anomalia fascista nel nostro Paese per così dire costituzionalizzandola. Non dimentichiamo che due anni prima Berlusconi aveva avviato un processo analogo nei confronti di Alleanza Nazionale, il
famoso sdoganamento.
Se è ragionevole pensare che ci fossero queste buone intenzioni, esse si sono dimostrate nel tempo un fallimento sempre più tragico causando l’esatto contrario. L’incarnazione di questo fallimento è esattamente il governo attuale, a guida post fascista. In mezzo, cioè in questi ultimi decenni, questa linea ha portato a una legittimazione strisciante ma crescente del ventennio, a una delegittimazione strisciante ma crescente della Resistenza, a una serie di strappi, o di tentativi di strappi al tessuto costituzionale sia dal punto di
vista testuale, vedi i referendum del 2006, del 2016, del 2020 sulla riduzione del numero di parlamentari, sia dal punto di vista pratico, cioè della non applicazione della Costituzione. Faccio mie le parole di Liliana Segre. In Senato una settimana fa ha affermato che “Se le energie che da decenni vengono spese per cambiare la Costituzione – peraltro con risultati modesti e talora peggiorativi – fossero state invece impiegate per attuarle, il nostro
sarebbe un Paese più giusto e anche più felice”.
In questo scenario si collocano anche la riforma del Titolo V entrata in vigore nel novembre 2001, il voto favorevole della quasi totalità del centrosinistra sulla Legge del Ricordo che ha consentito la costruzione di un paradigma vittimario del fascismo che oggi è egemone in molte realtà locali; ancora, il voto sulla legge istitutiva della Giornata della Memoria del sacrificio degli alpini il 26 gennaio, quando gli alpini combatterono eroicamente a Nikolaevka non per difendere la nostra patria, ma per sconfiggere coloro che difendevano la loro patria dall’invasore.
Aggiungo che in questi anni si è diffusa una letteratura politica anche di
campo democratico che ha teso a minimizzare il pericolo di un nuovo
fascismo, mentre si diffondeva a macchia d’olio, anche sul piano culturale,
un’offensiva della destra sui partigiani dipinti come criminali. Sono stati
approvati ordini del giorno regionali di messa all’indice della libera ricerca
storica.8
D’altra parte in questi trent’anni abbiamo assistito a un sempre più veloce
aumento delle diseguaglianze sociali, frutto dell’attiva condivisione del
sistema economico-sociale che chiamiamo neoliberista, peraltro con alcuni
specifici provvedimenti come l’abolizione dell’Art. 18 e l’introduzione del job-
act.
Poi c’è la legge elettorale. Abbiamo così un parziale ritratto di alcune delle
ragioni che hanno portato da un lato allo sfilacciamento dell’antifascismo
come collante sociale generale e dall’altro alla sconfitta elettorale.
Tutto ciò naturalmente è una parte della realtà, perché non va nascosto un
impegno costante in particolare di alcuni parlamentari per varare leggi e
provvedimenti antifascisti, né va nascosto il lavoro per l’espansione dei diritti
civili. Ma non si può negare che lo scarso impegno per la difesa dei diritti
sociali, della centralità del lavoro e della dignità delle persone, abbia
contribuito ad accrescere la sfiducia popolare verso le forze democratiche.
Mi sono soffermato sulle ragioni delle difficoltà dell’antifascismo, perché se è
vero che la sconfitta elettorale è una sconfitta dell’insieme del mondo
democratico antifascista, è anche vero che non l’abbiamo certo consentita. Mi
riferisco non solo all’ANPI, ma più in generale a una larghissima area
dell’associazionismo, avendo negli anni passati su ciascuno di questi punti
come associazione o come rete nei modi possibili portato avanti un contrasto
e una opposizione. Lo sottolineo sia perché mettere tutte le forze
democratiche nello stesso sacco è storicamente e analiticamente sbagliato,
sia perché oggi e più di ieri l’unico campo ragionevole da cui ripartire è
proprio il campo dell’associazionismo.
Da tutte queste considerazioni vorrei trarre alcune conclusioni.
Io penso in primo luogo che il rapporto che dovremo avere con il governo
Meloni debba svolgersi, come per ogni altro governo, sul terreno della critica
o della condivisione di ciascun provvedimento o di ciascun elemento di
programma, mantenendo, come detto più volte, la barra su due questioni: la
difesa della democrazia costituzionale e la politica unitaria.
Aggiungo che la polemica col governo che ci sarà certamente e per alcuni
aspetti c’è già, deve essere fondata su argomenti solidi, portata avanti con
serietà, rigore e toni non propagandistici. La questione non è scontata. Per
essere più chiaro: non dobbiamo gridare al fascismo ad ogni piè sospinto,
perché non saremmo esatti e non saremmo credibili.
1 commento
1 Aladinpensiero
5 Novembre 2022 - 09:22
Anche su aladinpensiero online: http://www.aladinpensiero.it/?p=138277
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