Gianna Lai
Domenica per Democraziaoggi equivale ad una nuova puntata sulla storia di Carbonia. Eccola, dal 1° settembre 2019.
Con l’apertura della Camera del lavoro, subito dopo la Liberazione, prese forma a Carbonia l’attività sindacale in maniera stabile e organizzata, secondo le indicazioni contenute nel Patto di Roma, giugno 1944, e poi ribadite nel 1^ Congresso della Confederazione Generale Italiana del Lavoro Unitaria delle zone liberate, Napoli, gennaio 1945. Perché era nata nel Mezzogiorno, alla fine del 1943, subito dopo l’occupazione alleata, la Confederazione del lavoro meridionale. Con la quale tuttavia le leghe di Carbonia, pur in fase di costruzione, non erano mai riuscite a mettersi in contatto, separate dal mare Tirreno, su cui incombeva ancora la guerra e il blocco navale. Le Camere del lavoro nascevano ora all’insegna di una forte iniziativa operaia e popolare, in piena ricostruzione, soggetto primo della difesa della democrazia in Italia, un’immensa speranza di sviluppo democratico e di emancipazione dei lavoratori”, come le definisce Vittorio Foa in Sindacati e lotte operaie. A Carbonia la Camera del lavoro nasceva formata da operai ancora scarsamente sindacalizzati, ancora da rafforzare l’organizzazione e la direzione del movimento. Stessa condizione per la Federazione Provinciale Minatori e Cavatori, fondata ad Iglesias in quello stesso periodo, che ebbe come primo segretario Martino Giovannetti seguito, nel 1948, da Pietro Cocco. Per riprendere il discorso iniziato precedentemente sulla costruzione del sindacato durante i governi Badoglio e Bonomi, bisogna dire che, subito dopo la Liberazione, la CGIL articola e sviluppa la sua struttura organizzativa in Federazioni nazionali di categoria, Camere del lavoro e Sindacati provinciali. “L’organizzazione di tipo -orizzontale- ha al vertice la Confederazione, che raggruppa, a livello nazionale, tutti i sindacati di categoria che esistono nel territorio”. Mentre “l’organizzazione di tipo -verticale-, ha al vertice il sindacato nazionale di categoria, che comprende tutti i lavoratori di un certo settore produttivo; …. il sindacato nazionale di categoria ha una sua istanza in ogni provincia, e poi, all’interno di ogni provincia, vi sono delle sedi minori, dette ‘leghe’, in un numero variabile, a seconda della importanza industriale della provincia”. Le leghe, a loro volta, raggruppano le fabbriche del settore produttivo che si trovano nel loro ambito territoriale, così nel Sulcis-Iglesiente quelle dei minatori, i cui attivisti tengono i contatti tra i lavoratori dei cantieri e il sindacato esterno. Dato che l’organismo di rappresentanza dentro la fabbrica, la Commissione interna, soggetto di ogni azione rivendicativa ed eletta da tutti i lavoratori, compresi quelli non iscritti al sindacato, non è un organismo sindacale. E “gli eletti stessi possono non essere iscritti al sindacato e, formalmente, non essere tenuti a rispondere delle loro azioni di fronte all’organizzazione, ma soltanto di fronte ai loro elettori”: per significare “l’aspirazione del sindacato italiano a rappresentare la generalità dei lavoratori…un tratto di fondo, che lo caratterizzerà sempre”. Nonostante la maggioranza dei membri delle Commissioni interne, così anche Carbonia, risulti spesso costituita dai più noti militanti delle leghe di appartenenza.
Una organizazione verticale e orizzontale ricostituita dall’alto, rispetto a quelle sorte tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, vi predomina l’iniziativa di partito, mentre “i lavoratori si organizzano in base alla loro comune condizione di lavoratori”" fin dai primi mesi dopo la Liberazione, dando origine ad “un impetuoso sviluppo delle iscrizione ai sindacati, con 6 milioni di iscritti alla CGIL all’inizio del 1947″. Un eccezionale potere operaio nei luoghi di lavoro, al momento della liberazione del Nord, dove i Comitati di Liberazione Nazionale Aziendali avevano assunto il controllo delle fabbriche. Ed è politico il carattere dell’adesione al sindacato in questo periodo se, “nelle aree che erano state sedi importanti della Resistenza vi è uno stretto parallelismo tra sviluppo delle iscrizioni al sindacato e sviluppo delle iscrizioni al Partito comunista……Il PCI, il partito più influente, per quanto riguarda il fondamento della militanza, l’interprete quasi esclusivo di un profondo cambiamento sociale diffuso tra le masse, che ebbe spesso una influenza moderatrice sulla politica sindacale”. La sua politica essendo orientata verso la costruzione di “una linea di inserimento pacifico nella nuova democrazia”, come dice la storica Bianca Beccalli, con la partecipazione ai governi che guidano il processo di ricostruzione del paese. Impegnati innanzitutto, i comunisti, contro la disoccupazione e la flessibilità della forza lavoro imposta dagli industriali, a favore della tutela degli interessi dei lavoratori, difesa, cioè, dei salari, del tenore di vita e dell’occupazione. Gli corrispondeva “l’orientamento politico autonomo del sindacato …. in senso universalistico”, che si afferma deciso, in contrapposizione al sindacato fascista, corporativo e controllato dallo Stato. E poi una strategia rivendicativa, di fronte a quella forza lavoro così eterogenea, come “scelta di privilegiare gli interessi degli strati più bassi dei lavoratori” : in quanto rappresentante degli interessi generali ‘universali’, il sindacato è sindacato di classe, la cui forza si fonda innanzitutto sulla difesa dell’occupazione e sulla difesa del potere d’acquisto del salario.
Così l’imposizione del blocco dei licenziamenti, secondo l’accordo nazionale, fu il primo impegno delle Camere del lavoro nei territori, insieme al controllo sull’aumento dei prezzi, in direzione di in accordo sulla scala mobile, allargata poi a tutti i lavoratori nella seconda metà del 1946, una vittoria importante per il sindacato, aumenti automatici dei salari, secondo gli aumenti del costo della vita, previa sottoscrizione di una tregua salariale di 7mesi. Ma le richieste sindacali assumono via via un respiro più ampio, verso una vera riforma agraria, verso la creazione in forma organica di un Piano del lavoro e verso un programma di nazionalizzazioni. I principali obiettivi perseguiti attraverso trattative ben definite sulle politiche generali del governo, quasi sempre evitando di ricorrere allo sciopero, anzi l’Italia, a quel tempo, il paese europeo con meno scioperi, nonostante fossero sempre forti le tensioni sociali.
E gli obiettivi di tale politica rivendicativa erano da perseguire attraverso una contrattazione nazionale, valida per tutta l’economia e per tutto il paese: così a livello confederale, a livello nazionale di categoria, si cominciano a rinnovare i primi contratti di lavoro, potenziando le strutture centrali confederali. E mentre minore impulso viene riservato a quelle di categoria, ad essere potenziate, tra le strutture locali, quelle orizzontali, le Camere del lavoro prime fra tutte. Secondo una politica di controllo dell’organizzazione sindacale di fabbrica, per sostanzialmente escludere “l’articolazione contrattuale a livello aziendale, che avrebbe potuto condurre a una disgregazione dell’unità sindacale e della coscienza di classe, rischiando di sviluppare nei lavoratori della fabbrica più avanzata una coscienza aziendalistica”. Non avendo la CGIL elaborato alcuna forma alternativa, diversa, rispetto ai modelli già noti di organizzazione del lavoro.
1 commento
1 Aladinpensiero
1 Novembre 2020 - 10:06
Anche su aladinpensiero online: http://www.aladinpensiero.it/?p=114648
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