Andrea Pubusa
Da uomo del Foro professo, senza riserve o dubbi, la fede garantista. La persona deve stare al centro dell’ordinamento, anche di quello giudiziario. D’altra parte, in questo campo sono veramente prevalenti le storie che non fanno notizia su quelle che suscitano clamore. Quanti provvedimenti di “clemenza” verso i detenuti vanno a buon fine senza che se ne parli? Proprio perché il detenuto rispetta le prescrizioni di legge e del magistrato non si parla dei casi in cui i benefici favoriscono il reinserimento del condannato, consentendogli di rientrare nel circuito della normalità e della riconquista della cittadinanza sostanziale. Bene dunque la legislazione di favore nel solco di quel grande principio di civiltà racchiuso nell’art. 27 capoverso della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Detto questo con convinzione e proprio per questo, non si può però negare che suscitano apprensione taluni provvedimenti del magistrati, che paiono privi di razionalità, adottati da persone con scarso senso della realtà, da soggetti che vivono in un mondo fatto solo di codici e pandette.
Non so in voi, ma in me ha suscitato questa sensazione la vicenda di Jhonny lo zingaro. Leggo sulla stampa. Le prime quattro evasioni le organizzò scappando da riformatori e carceri dov’era stato rinchiuso da minorenne o poco più; per le altre tre gli è bastato non tornare in cella dopo un permesso. L’ultima volta sabato scorso, al termine di dieci giorni di «licenza» dopo la firma in questura. È così che Giuseppe Mastini detto Johnny lo zingaro, sessant’anni compiuti a febbraio, è diventato il più noto condannato per le sue fughe. Certo la sua è la vicenda di un uomo dalla vita non facile. Analfabeta, figlio di giostrai lombardi di etnia sinti, Mastini si trasferì a Roma con i genitori all’età di dieci anni, risiedendo in una roulotte e occupandosi della gestione delle giostre. Iniziò a frequentare la criminalità giovanile del Tiburtino distinguendosi già a 11 anni per un furto e una sparatoria con la Polizia che lo lascerà claudicante. E subito arriva il primo delitto. Nella sera del 28 dicembre 1975, insieme al coetaneo Mauro Giorgio, cercò di rapinare Vittorio Bigi, autista di tram, rubandogli diecimila lire e un orologio; qualcosa però va storto e i due ragazzi sparano due colpi di pistola, uccidendo l’autista e occultandone il cadavere che verrà trovato una settimana più tardi, il 6 gennaio 1976, in un prato in via delle Messi d’Oro (zona Tiburtina). La testimonianza di un tassista portò, nel giro di pochi giorni, all’arresto dei due minorenni con le accuse di omicidio volontario, rapina aggravata e porto abusivo di pistola. Tradotto nel carcere minorile di Casal del Marmo, secondo le affermazioni di Mastini, conoscerà per la prima volta Giuseppe Pelosi.
Condannato a dodici anni di carcere, nel febbraio 1987 Mastini beneficia di un permesso premio di alcuni giorni per buona condotta, ma non farà ritorno nella struttura penitenziaria per scontare la pena, dandosi alla latitanza. Segnalato per una serie di rapine, viene riconosciuto in una foto segnaletica dalla moglie di Paolo Buratti, console italiano in Belgio, ucciso nella sua villa a Sacrofano da un colpo di pistola, nel tentativo di resistere a una rapina. Nel frattempo Mastini conosce Zaira Pochetti, 20 anni, di umilissima famiglia, figlia di un pescatore di Passoscuro, residente a Roma in un collegio di suore in quanto studentessa presso la facoltà di scienze politiche dell’Università La Sapienza.
La sera del 23 marzo 1987, Mastini e la giovane Pochetti, a bordo di una vettura da lui condotta, vengono fermati da due agenti della polizia di pattuglia in Via Quintilio Varo, presso l’incrocio con la Circonvallazione Tuscolana: ne scaturisce un conflitto a fuoco in cui viene ucciso l’agente Michele Giraldi e ferito gravemente Mauro Petrangeli. Mastini, illeso, si dirige con la ragazza verso Viale Palmiro Togliatti dove i due vengono intercettati da un carabiniere in borghese che intima loro l’alt. Pur investito da una raffica di proiettili che danneggiano l’auto di servizio, inclusa la radio, il milite rimane illeso e riesce a dare l’allarme da una cabina telefonica poco distante.
L’automobile di Mastini si ferma in panne sulla via Nomentana. Con la minaccia della pistola, sottrae un’auto Lancia Gamma a una coppia. La ragazza, Silvia Leonardi, terrorizzata, non riuscendo a scendere dall’auto del fidanzato, viene sequestrata e condotta fino alla zona della Bufalotta, e quindi rilasciata. Intanto a Roma viene dato l’allarme agli agenti di tutti i reparti, finché, nell’arco di alcune ore, Pochetti e Mastini vengono tratti in arresto.
Mastini scompare dalle cronache per riapparire nel febbraio 1989 con un’intervista per il programma televisivo Posto pubblico nel verde nel quale racconterà come, in seguito all’arresto, Zaira Pochetti sia caduta in uno stato di catatonia e di anoressia che l’avrebbero condotta alla morte nel dicembre del 1988. Rivelerà inoltre che la donna, al momento della morte, era in attesa di un figlio per un rapporto sessuale consumato prima dell’arresto.
Nel processo celebratosi nel 1989, Mastini sarà condannato alla pena dell’ergastolo per tutti i reati a lui ascritti, ad eccezione dell’omicidio di Sacrofano, dove fu assolto per insufficienza di prove.
Insomma da queste note biografiche di Wikipedia i precedenti evidenziano l’insofferenza per la prigione e le sue regole. Sorge spontanea una domanda. Come si fa a dare fiducia ad un evasore seriale di questo calibro? Certo i magistrati di sorveglianza sono tornati a dargli fiducia perché, dopo tanta galera, era vicino il traguardo della semilibertà. L’udienza era fissata a febbraio e dunque si confidava nel buon senso di Jhonny. Ma è sensato confidare nel buon senso di uno che in tutta la sua vita ha mostrato di non averne? Ed ora, quando tornerà in carcere e farà il buono (perché fra le sbarre lo è), che farà l’ennesimo giudice di sorveglianza? Cancellerà il passato e gli darà ancora fiducia o gli chiuderà la porta in faccia? Don Gaetano Galia, direttore del Centro salesiano che aveva accolto Johnny nell’ultimo anno e mezzo di permessi, teme che il suo percorso di reinserimento sia definitivamente concluso; paventa che ormai il suo destino sia la fuga o il carcere; da uomo di fede pensa, sconsolato, che “dal punto di vista del recupero è come se fosse morto“. Ma non è detto. Non ci sono solo condannati insensati, ce ne sono anche fra le toghe. Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, ma questo deve mostrare voglia di rieducarsi e dar prova di aver raggiungto l’obiettivo. O no? Materia terribilmente difficile e scivolosa.
2 commenti
1 Aladinpensiero online
10 Settembre 2020 - 08:35
Anche su aladinpensiero online: http://www.aladinpensiero.it/?p=112290
2 Michele Capitani
12 Settembre 2020 - 19:29
Puntuale! E non è asserzione da ipotetico allievo ‘ruffiano’. Il Garantismo è doverosità civico-costituzionale. Qualsiasi dubbio si esprime con punto interrogativo anche senza fede ritualizzata. E’ il buon senso dell’umanista-illuminista. Infatti, questi non ha titoli. Neppure tipo Dott., Prof., Avv.. Ad averne di più, nel senso di nessuno escluso anche soltanto per doverosità, appunto, di questi profili professionali colmi di buon senso (logicità, proporzionalità e razionalità, non essendo più sufficiente la semplice ragionevolezza), come d’obbligo. Bene la riproposizione della “storia” di Mastini Giuseppe, confermativo di colloquiare con persona sempre dotata di motore spirituale a quattro tempi e quale completezza dell’”omo”. La persona al centro di tutto; soprattutto, dell’ordinamento giudiziario nelle sue diverse rappresentazioni e come fondamento primo della Democrazia. E’ esattamente così?! No, anche perché esiste Democrazia Oggi che tende al miglioramento di questo, ovvio. Il confronto è sempre motivo di reciproco arricchimento e, spesso se non sempre, come in specie, più per un discente. L’operato richiamo all’articolo 27 è preciso e accurato per quanto riguarda il comma terzo. Ma anche il quart’ultimo comma del medesimo articolo merita un commento o richiamo mnemonico. Soprattutto quando questo divieto (pena di morte anche spirituale …) nascente dalla Costituzione originaria viene eluso, camuffandolo. Tanto che, la Storia insegna che l’omicidio vero e proprio si è servito e si serve di diversi e più mezzi sofisticati. L’attualità o contemporaneità conduce, per quanto espresso nel periodo precedente, all’estremizzato cinismo culturale del potere anche marketing per quota parte e, a valere come aggravante, “pubblico”; spesso gestito con protervia anziché con trasparente autorevolezza. La clemenza segue alla moderazione, funzionale non a scopi diversi dall’educazione doverosa e diretta al reinserimento sociale dell’individuo. Certo che la cronaca giudiziaria ora richiamata all’attenzione è un caso limite anche fra qualcun altro più o meno simili. Confermativo, forse, che la “Colonia penale” sarebbe più utilitaristica anziché marcire in una cella di carcere bunker. Due riflessioni storiche si succedono: una quella di Tommaso d’Aquino, secondo il quale, in quel contesto e riferito a caso irrecuperabile (tirannia o tirannide burocratica), poteva essere considerato non peccato infrangere il corrispondente comandamento fra quelli originari dettati all’illuminato Mosè. La seconda conduce a Martin Lutero, per il quale: la malattia nasce, in generale o sempre, e fatta salva precaria ereditarietà genetica più o meno incipiente, da un’infiammazione. Valga al riguardo il pensiero rivolto a un ben noto collega di attività forense. E, stando in tema, che la catatonia e l’anoressia di cui soffrì la ricordata Zaira Pochetti, possano essere dipese da un’infiammazione dell’”animo”. Pur con obbligo di distinguo. Condivisibile la riflessione a chiusura di articolo, a proposito di insensati condannati e toghe. Oltremodo intricata e liquida appare la questione posta. Ma non impossibile. Sarebbe sufficiente volerla l’appropriata soluzione. Convinti che, niente è impossibile essendo sufficiente volere il possibile. Tutti insieme ovvero con maggioranza qualificata in democrazia. Certo che, in conclusione e non soltanto per mera eufonia di quanto in dettaglio, ancorchè irritualmente, Andrea, prestandosi, anche soltanto come adesione di massima, a una breve prefazione o presentazione, si potrebbe predisporre per la stampa la bozza ultima di quel che potrebbe essere un libro dal titolo: “Anamnesi. L’intervento del giornalista: avvocato della carta stampata e mediatica. Con paracleto psicologo: avvocato dell’anima”. Con l’intesa che, in fase di moderazione, quest’ultimo periodo si presta ad essere anche espunto.
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