Gianfranco Sabattini
Con l’avvento della globalizzazione, la struttura capitalistica del mondo ha subito una radicale trasformazione, caratterizzata soprattutto da un processo di concentrazione in termini di potere che non ha eguali rispetto al passato; si tratta di un potere in grado di condizionare a tal punto la politica degli Stati integrati nell’economia mondiale, che è legittimo chiedersi, con Giorgio Galli e Mario Caligiuri (“Come si comanda il mondo. Teorie, volti, intrecci”), “se ci siano Stati, entità o persone che, in modo palese o occulto, siano in grado di condizionare gli equilibri presenti e futuri dell’ordine mondiale”.
A parere degli autori, l’argomento è diventato oggetto di molte inchieste giornalistiche, sebbene sinora non siano state effettuate ricerche scientificamente fondate sulla supposta esistenza delle relazioni e degli intrecci che consentirebbero al potere economico di condizionare quello politico; relazioni ed intrecci normalmente visibili senza eccessivi sforzi ed approfondite indagini.
La necessità di una sistemazione scientifica dell’argomento s’impone, soprattutto per dare una risposta ai molti interrogativi sollevati con la diffusione nell’immaginario collettivo, dopo gli attentati dell’11 settembre del 2001 alle “Torri gemelle” di New York, delle tesi insite nella “teoria del complotto, secondo la quale pochi attori politici ed economici tutelano i propri interessi ai danni delle moltitudini”; secondo gli autori, queste tesi, lungi dall’essere il risultato dell’agire di poteri più o meno reali, sono “probabilmente un alibi delle classi politiche contemporanee per mascherare le inefficienze e l’impossibilità ad agire nel contesto della democrazia rappresentativa del nostro tempo”.
Con il loro libro, gli autori, considerando che le “decisioni non sono mai impersonali ma hanno nomi e cognomi, volti e storie”: al fine di porre un limite alle affermazioni generiche della teoria del complotto, hanno cercato di dare una risposta all’interrogativo “se a decidere le sorti del pianeta siano effettivamente quelli che appaiono sistematicamente sugli schermi televisivi e di cui scrivono i giornali”. Essi, gli autori, hanno verificato che spesso le cose non stanno come dicono i mass-media.
Il lavoro di Galli e Caligiuri è articolato in due parti: nella prima è affrontato principalmente il tema dell’evoluzione del concetto e del ruolo delle élite, con particolare riferimento a quelle nordamericane; nella seconda, è ampliato uno studio del Politecnico di Zurigo, per individuare “persone e relazioni” che potrebbero rappresentare la base di comprensione del modo in cui è “governata” l’economia mondiale, “identificando un possibile nocciolo duro del sistema finanziario globale”. Ciò ha consentito agli autori di sostenere che la protesta dell’opinione pubblica contro il disagio provocato dall’instabilità economica e dall’inefficacia dell’azione politica sia erroneamente indirizzata. Oggi, infatti, la protesta è “indirizzata verso le classi politiche che non sono quelle che detengono effettivamente il potere, che, invece, al di là del giudizio che si può dare, viene gestito prevalentemente delle élite economiche, all’interno delle quali hanno un ruolo determinante le dinastie nordamericane”.
Con la dislocazione del potere decisionale, volto a “governare” l’economia mondiale dalla politica al nocciolo duro del sistema finanziario globale, ha perso di significato ogni discussione riguardo alla scomparsa dei problemi alla cui soluzione era tradizionalmente votata la politica (come quello, ad esempio, dell’individuazione delle pratiche più convenienti per contrastare la disuguaglianza distributiva); la politica è divenuta quasi incontrollabile in tutte le economie integrate nell’economia mondiale. Ciò è accaduto perché essa “è stata neutralizzata dall’economia attraverso un potere che non è anonimo […], bensì è rappresentato dai manager che controllano determinate multinazionali economiche e finanziarie”. Si tratta di un’élite che, benché ignota all’opinione pubblica mondiale, ha – affermano Galli e Caligiuri – “nomi e cognomi ben individuabili” e il “controllo del loro operato è il problema della democrazia nel XXI secolo”.
Riguardo al concetto di élite e della sua evoluzione, gli autori, partendo dalla definizione che ne ha dato originariamente la “scuola élitista italiana” di Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Roberto Michels, con riferimento alla classe politica (intesa quest’ultima come gruppo sociale che, per ricchezza e qualità culturale, aveva consentito che “pochi” si imponessero ai “molti”), hanno considerato il mutamento intervenuto nella sua composizione, verificatosi con l’evoluzione del capitalismo dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Seguendo i lavori di ampio respiro delle ricerche socio-politiche nordamericane (di Charles Wright Mills, Kevin Phillips e David Rothkopf), gli autori illustrano come ai componenti dell’élite politica, cui avevano fatto riferimento Mosca, Pareto e Michels, si siano aggiunti anche i grandi dirigenti delle imprese multinazionali.
L’avvento della nuova élite, secondo Wright Mills, ha avuto nel mondo nordamericano conseguenze politiche radicali, nel senso che ha causato la trasformazione dell’America di oggi “in una democrazia politica formale e burocratica”, della quale ha inceppato i meccanismi tradizionali, declassando l’insieme delle istituzioni su cui era basato il corretto funzionamento del regime. Gli uomini che ora decidono per l’intero sistema sociale non sono più uomini rappresentativi, e il successo riscosso non ha alcuna relazione con i loro meriti, in particolare con quelli culturali: “non si tratta – afferma Mills – di uomini selezionati e formati da una burocrazia legata al mondo della cultura; non si tratta di persone legate da partiti nazionali responsabili […], non si tratta di uomini che […] stabiliscano un contatto tra il pubblico esercitato alla discussione e coloro che prendono le decisioni più importanti”; si tratta, invece, di uomini che “hanno fatto le loro carriere nell’ambito del sistema americano dell’irresponsabilità organizzata”.
Coloro che comandano nelle imprese multinazionali – affermano Galli e Caligiuri- costituiscono un’”élite cooptata”, selezionata autonomamente dai cittadini, ai quali invece dovrebbe essere restituito il potere di scelta di coloro che prendono le decisioni nell’interesse di tutti, essendo questo potere “l’essenza della democrazia rappresentativa”. Accade, invece, che “gli uomini potenti”, che costituiscono la nuova élite, selezionati da altri che come loro controllano le fonti della ricchezza, si legittimino sulla base della “teologia del mercato”, che ha loro consentito di relegare in secondo pian la politica
Per quanto riguarda l’individuazione del “nocciolo duro” costituito da un piccolo numero di persone e istituzioni che controllano una parte rilevante del mercato globale, gli autori si sono avvalsi, come già si è detto, di una ricerca di un gruppo di docenti dell’Università di Zurigo, dal titolo eloquente: “The Network of Global Corporate Control; sulla base di questa ricerca, è stato individuato un groppo di multinazionali che, attraverso un sistema di partecipazioni azionarie incrociate, esprimerebbe un centro decisionale che orienterebbe “le sorti dell’economia mondiale”.
Per la conduzione della loro indagine, i ricercatori si sono avvalsi del database “Orbis 2007”, contenente informazioni confrontabili su aziende, banche e società di tutto il mondo; essi hanno individuato una lista di 43.060 multinazionali, selezionate in un campione estratto da circa 37 milioni di operatori economici, appurando che 1.318 società del campione sono situate al centro del mercato globale e rappresentano circa il 50% degli utili di tutte le multinazionali.
Inoltre, la ricerca ha accertato che 147 società formano un gruppo ancora più ristretto cui va ricondotto il controllo del 40% delle multinazionali, che può essere ulteriormente circoscritto allo studio di 50 società globali, appartenenti al ramo delle attività bancarie e assicurative. In cima alla classifica di tali attività sta la banca inglese Barclays, seguita da altre società tutte operanti nel campo finanziario, tra le quali, al 43° posto, risulta il gruppo italiano UniCredit.
Le 50 società costituiscono il punto di partenza dell’analisi di Galli e Caligiuri, volta ad appurare l’esistenza, a livello mondiale, dei “reali rapporti di potere”, fondati sull’accertamento delle relazioni correnti tra appartenenti ai consigli di amministrazione delle 50 società, da un lato, e governi, editoria, università e superclub planetari, dall’altro. Poiché, con la globalizzazione, le istituzioni finanziarie sono divenute dominanti, esse hanno preso sulla politica un tale sopravvento da giustificare l’assunto che esista oggettivamente “una élite costituita da presidenti e amministratori delegati di poche società finanziarie mosse soltanto dal profitto”.
L’influenza che possono esercitare le società finanziarie gestite da tali presidenti e amministratori va ben oltre, a parere di Galli e Caligiuri, la sfera economica, in quanto “attraverso il loro peso finanziario, sono in grado di determinare indirettamente anche la politica degli Stati”. E’ il caso, ad esempio, del Fondo d’investimento Black Rock, il quale, oltre a possedere “un forte potere di mercato, può anche incidere a livello politico”, mentre i nomi di Larry Fink e Rob Kapito, rispettivamente amministratore delegato e presidente del Fondo, “sono sconosciuti ai più, ma il benessere e i destini di centinaia di milioni di persone nel mondo sono influenzati dalle loro scelte”.
Ai vertici delle 50 società considerate, Galli e Caligiuri hanno individuato un ristretto gruppo di 65 persone che fanno parte di diversi consigli di amministrazione di altre società multinazionali, università e fondazioni; l’insieme dei rapporti che si sono consolidati tra i vertici di tali società hanno concorso a definire quello che Galli e Caligiuri chiamano “capitalismo di relazione”, i cui gestori sono dotati del potere di “dominare il sistema politico di vari Paesi e l’economia mondiale nel suo complesso”.
Dall’analisi dei curricula dei 65 top manager, Galli e Caligiuri hanno anche accertato che molti di essi hanno incarichi di insegnamento presso istituzioni universitarie; incarichi, questi, che concorrono a realizzare la “saldatura tra élite e mondo accademico”, da un lato, e a rivelare come “attraverso l’influenza sul sistema della formazione[…], si possa influenzare l’opinione pubblica proponendo modelli sociali e culturali dominanti”, dall’altro.
Pur non esistendo una “cupola globale” – osservano Galli e Caligiuri – che condizioni i destini del mondo, si deve tuttavia riconoscere che le multinazionali “esprimono un forte potere di indirizzo sui destini del pianeta”. Attraverso il potere da esse assicurato, i loro dirigenti tendono all’arricchimento, prescindendo, non solo “da qualunque interesse nazionale, ma, a volte, anche societario”, come dimostrano i diversi scandali societari che costantemente si succedono.
In un contesto di post-democrazia, quale è quello creato dalla pervasiva presenza delle multinazionali, viene spontaneo chiedersi, concludono Galli e Caligiuri, quali potranno essere gli sviluppi futuri della loro crescente capacità di sostituirsi alla politica e, in particolare, se quest’ultima riuscirà a riprendere il suo ruolo e se la democrazia potrà “dimostrare la sua vitalità”, evitando d’essere “sostituita da un governo diretto dall’economia”.
La situazione attuale non consente facili previsioni, anche perché gli strumenti per comprendere quello che sta accadendo davvero sono molto pochi; a parere degli autori, per ricuperare la democrazia e per realizzare un mondo con minori disuguaglianze, l’unica chance a disposizione dei singoli sistemi sociali sta nella soluzione della “questione pedagogica”. Ciò comporta che “l’investimento nell’istruzione” debba rappresentare la priorità di ogni governo, allo scopo di “formare cittadini consapevoli ed élite responsabili”, per una “convivenza civile che non porti al disastro e arrivare ad un effettivo controllo di chi comanda.
Con l’auspicio di Galli e Caligiuri non si può non concordare; esso, però, lascia il dubbio che, considerati i tempi lunghi necessari per la formazione di cittadini dotati dei valori utili per dare concretezza alla democrazia, l’istruzione non basti; se l’azione pedagogica, suggerita dagli autori, mancasse d’essere sorretta da preventive riforme strutturali idonee a consentire la correzione e il contenimento degli effetti negativi del “capitalismo relazionale” del quale essi parlano, diventa sempre più difficile evitare che il futuro riservi alla democrazia e all’equità distributiva il disastro preannunciato dal continuo aumento dello strapotere di chi controlla le multinazionali.
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