Cambiamento tecnologico e problema del lavoro

8 Giugno 2018
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Gianfranco Sabattini

Nel libro recente “Le persone non servono. Lavoro e ricchezza nell’epoca dell’intelligenza artificiale”, Jerry Kaplan, scienziato e imprenditore, nonché docente presso il Dipartimento di Computer Science alla Stanford University, descrive gli scenari futuri coi quali le società avanzate ad economia di mercato saranno chiamate a confrontarsi, per via dell’impatto che su di esse avrà il crescente sviluppo della conoscenza scientifica e del progresso tecnologico.
La narrazione di Kaplan, per quanto condotta con il prevalente riferimento alla tecnologia informatica, non preclude una sua generalizzata estensione a tutti i settori dei sistemi capitalistici moderni. E’ probabile – egli dice – che gli sviluppi scientifici e tecnologici “diano inizio ad una nuova era di prosperità e di comodità senza precedenti, ma la transizione potrebbe essere prolungata e brutale. Senza aggiustamenti nel nostro sistema economico e senza una politica normativa, potremmo trovarci in un lungo periodo di disordini sociali”.
L’obiettivo della narrazione dell’autore è innanzitutto quello di dimostrare l’ineludibilità del pericolo di questa transizione, ma anche quello di suggerire alcune soluzioni che non ostacolino il progresso scientifico e tecnologico e riducano al minimo il persistere dell’attuazione di politiche assistenziali nella vita dei cittadini che vedranno peggiorare le loro condizioni di vita.
Ad oggi, secondo Kaplan, l’introduzione di tecnologie sempre più avanzate nel processo produttivo ha originato la crisi dei sistemi finanziari, che gli economisti imputano a un non ben definito “rischio sistemico”, considerato intrinseco alla dinamica sempre più sostenuta del progresso scientifici-tecnologico; progresso, i cui esiti negativi, a parere di Kaplan, sono percepiti dai professionisti della politica “come qualcosa che può essere risolto con un’iniezione di antibiotico governativo e una buona notte di sonno”.
Il procedere del crescente approfondimento capitalistico dei processi produttivi, seguito dall’introduzione di macchine sempre più avanzate, determinerà l’obsolescenza di “un’incredibile gamma“ di capacità produttive fisiche e mentali, confermando – afferma Kaplan - l’intuizione di Marx, secondo cui l’automazione industriale avrebbe sostituito il capitale umano espresso dalla forza lavoro; il conflitto distributivo che Marx descriveva tra lavoratori e detentori dei mezzi di produzione era un conflitto di “persone contro persone”.
Oggi, però, questo conflitto, a parere di Kaplan, non è sovrapponibile a quello gia in atto e che diventerà sempre più evidente in futuro, in quanto quello causato nel mondo moderno dal crescente impiego delle macchine non sarà più tra persone e persone, ma tra capitale e persone, in quanto le minoranze sempre più ristrette che ne trarranno vantaggio, senza le giuste riforme ridistributive, rischiano d’essere anch’esse travolte dal collasso generale del sistema sociale, causato dalla crescita continua delle disoccupazione e della disuguaglianza distributiva. Questa tendenza, che Kaplan considera già in atto, è evidenziata dalla continua distruzione di posti di lavoro, che avviene ad una velocità insostenibile per il mercato del lavoro, mentre l’acquisizione della nuova ricchezza va sproporzionalmente a vantaggio di chi è gia ricco.
Spesso, la risposta a tutto ciò da parte dei responsabili del governo del sistema sociale e da parte di molti economisti è che la crescita della produttività del sistema economico migliorerà le condizioni esistenziali di tutti e creerà nuovi posti di lavoro; una simile risposta, però, secondo Kaplan, non tiene conto del fatto che per il corretto funzionamento del mercato del lavoro è “il ritmo che conta”; i lavoratori attuali espulsi dalle attività produttive potrebbero “non avere il tempo né l’opportunità di acquisire le competenze richieste dai nuovi lavori”, a causa della velocità con cui i miglioramenti nell’organizzazione dei processi produttivi rendono spesso superate le eventuali nuove capacità lavorative nel frattempo acquisite dai disoccupati involontari.
Lasciare che la natura segua il suo corso e sperare che tutti i problemi si risolvano spontaneamente, come si è fatto durante e dopo le innovazioni produttive occorse tra il tardo Ottocento e l’inizio del Novecento – afferma Kaplan – è un “gioco pericoloso”. Il prodotto sociale pro-capite è cresciuto vertiginosamente dopo le innovazioni produttive, ma queste hanno anche “comportato sofferenze umane inimmaginabili lungo un esteso periodo di tempo di trasformazione economica. Non possiamo ignorare la tempesta in arrivo sperando che alla fine tutto si sistemerà: questo ‘alla fine’ – continua Kaplan – è un tempo troppo lungo. Senza un po’ di lungimiranza e senza intraprendere subito qualche azione, i nostri discendenti saranno condannati a mezzo secolo o più di povertà e ineguaglianza, ad eccezione di pochi fortunati”.
Cosa suggerisce Kaplan per contrastare la tendenza in atto? Niente più che un paio di palliativi. Egli infatti, per quanto riguarda il lavoro, propone un approccio basato sull’adozione di “un nuovo tipo di strumento finanziario, il ‘mutuo di lavoro’, garantito esclusivamente dal lavoro futuro, quindi dal salario che si percepirà, come il mutuo sulla casa è garantito esclusivamente dall’ipoteca sulla proprietà”. Con questo sistema, a suo parere, le attività produttive e il sistema formativo (il sistema scolastico in generale) “saranno incentivati a lavorare in un modo tutto nuovo”: le attività produttive potranno concedere “lettere di intenti non vincolanti”, con cui promettere l’assunzione del lavoratori disoccupati, se acquisiranno, attraverso specifici corsi di formazione, le capacità professionali appropriate; mentre le attività produttive riceveranno in cambio opportuni vantaggi fiscali, se manterranno la promessa dell’assunzione al termine del corso di riqualificazione della forza lavoro che ha perso la stabilità occupazionale.
Le lettere di intenti, per chi cerca di reinserirsi nel mercato del lavoro avranno, secondo Kaplan, la stessa funzione della stima personale della quale può avvalersi chi cerca casa; sulla base delle “lettere”, le istituzioni formative “dovranno modellare i propri curricula formativi attorno a specifiche capacità richieste dai datori di lavoro ‘sponsorizzanti’, per corrispondere ai requisiti del prestito”, pena la perdita dell’iscrizione dei lavoratori disoccupati per la riqualificazione delle loro capacità professionali. Inoltre, i lavoratori riqualificati non saranno vincolati ad accettare d’essere occupati presso l’attività produttiva che li ha “sponsorizzati”, quando un’altra attività produttiva dovesse proporre loro un salario maggiore; il meccanismo così concepito varrà a garantire ai lavoratori riqualificati una capacità autonoma di scelta della nuova occupazione, altrimenti inpossibile, in quanto dotati della necessaria “tranquillità” garantita loro dal sapere d’essere dotati di capacità professionali richieste dal mondo della produzione in continua evoluzione.
Per quanto riguarda il contenimento della crescita della disuguaglianza distributiva, Kaplan avanza un’altra proposta, fondata su ciò che egli chiama “indice di benefit pubblico”, posto a fondamento dell’attuazione di un sistema di programmi volti a mantenere un equilibrio distributivo più giusto nella società. Per la realizzazione di tale proposta, Kaplan suggerisce la tassazione della attività produttive, al fine di favorire una partecipazione azionaria a vantaggio dei loro dipendenti, con cui incominciare “a distribuire più ampiamente i vantaggi delle crescita futura.
Le proposte di Kaplan sono però contraddittorie rispetto alla dinamica dei processi produttivi, che si caratterizzano, come egli stesso afferma, per un continuo approfondimento capitalistico, destinato a produrre una crescente disoccupazione strutturale; fatto, questo, che al limite rende plausibile ipotizzare un tempo in corrispondenza del quale, se mancheranno le auspicate riforme dei meccanismi ridistributivi del prodotto sociale, questo sarà acquisto dal ristretto gruppo dei proprietari dei mezzi di produzione e dai pochi lavoratori azionisti che saranno riusciti a conservare il posto di lavoro. A questo punto, come potrà funzionare il sistema sociale in condizione di stabilità economica e politica? Quasi consapevole della inefficacia delle sue proposte per fronteggiare le piaghe sociali moderne della crescente disoccupazione strutturale e della ugualmente crescente disuguaglianza distributiva, è lo stesso Kaplan a fornire una risposta all’interrogativo.
La chiave – egli afferma – “per fare i conti con un bacino sempre più ridotto di posti di lavoro non è crearne artificialmente di nuovi su ordine del governo. Consiste piuttosto nel riequilibrare l’afflusso di forza lavoro economicamente motivata con la quantità di impieghi retribuiti disponibili. Obiettivo che può essere raggiunto regolando gli incentivi rivolti a chi decide di impiegare il proprio tempo in altre attività produttive”; osservando, infine, d’essere “il primo a riflettere su come sarà il mondo quando i bisogni essenziali di ognuno di noi potranno essere soddisfatti senza il nostro lavoro”.
A conferma delle sue previsioni, Kaplan ricorre a quanto John Maynard Keynes ha affermato in “Possibilità economiche per i nostri nipoti”; in questo famoso pamphlet della fine degli anni Trenta, il grande economista di Cambridge, dopo aver distinto i bisogni assoluti da quelli relativi, prevedeva che, una volta soddisfatti i primi, gran parte delle persone potessero destinare le “ulteriori energie a fini non economici”. Kaplan conclude osservando che Keynes colpiva nel segno già quasi novant’anni or sono, meravigliandosi che le prospettive keynesiane sul futuro della crescita economica e del suo impatto sulla sua distribuzione non siano ancora divenute oggetto di riflessione da parte degli operatori politici del mondo contemporaneo.

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