Roberto Ciccarelli
Luigi Ferrajoli nel suo ultimo libro “Manifesto per l’uguaglianza“, Laterza, dedica il cap. 6 al reddito minimo garantito. In questa intervista il filosofo e giurista anticipa e riassume la sua posizione favorevole, spiegandone le ragioni: «La povertà dilagante è uno degli effetti delle diseguaglianze create da politiche che hanno soppresso i vincoli del mercato». «240 miliardi di euro trasferiti dal lavoro al capitale, ora è giunto il momento di restituire il maltolto».
Luigi Ferrajoli, in dieci anni la povertà in Italia è raddoppiata. Quali sono state le politiche che hanno generato questo fenomeno?
Nasce da politiche che hanno soppresso i vincoli ai poteri del mercato che sono diventati poteri assoluti e selvaggi, hanno provocato in tutto il mondo, e non solo in Italia, un trasferimento di quote di Pil dal lavoro al capitale, dai poveri ai ricchi. Luciano Gallino calcolò nel suo ultimo libro che negli ultimi anni 240 miliardi di euro, il 15% del pil, sono stati trasferiti al capitale. È un fenomeno gigantesco, sintomo di un ribaltamento del rapporto tra politica e economia. Non è più la politica che governa la economia, ma è l’economia che detta regole alla politica. La politica ha favorito questo processo liberalizzando i capitali e abbattendo le garanzie del lavoro e i salari, cancellando i diritti.
Di recente è stata approvata una prima misura contro la povertà assoluta. La ritiene adeguata?
La forma più in accordo con il costituzionalismo, l’universalità dei diritti fondamentali e la dignità della persona è il reddito universale. Di fronte a disuguaglianze che concentrano nelle otto persone più ricche del pianeta la stessa ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale, una politica degna di questo nome dovrebbe redistribuire le ricchezze sterminate esistenti. Questa concentrazione è l’effetto di un ‘iniqua redistribuzione del reddito da parte del mercato. Per cambiare direzione occorrerebbe perlomeno la garanzia di un’equa retribuzione minima per chi lavora, stabilita dall’articolo 36 della Costituzione, e un reddito minimo garantito per chi non lavora previsto dall’articolo 38. Occorrerebbe insomma restituire il maltolto, non favorire una crescita delle diseguaglianze.
La nostra Costituzione afferma che la dignità della persona si afferma anche nel lavoro. Anche le statistiche Istat dimostrano che anche quando si lavora si continua a essere poveri. E la «trappola della precarietà» colpisce i nuclei familiari più giovani. Come si può rispettare questo principio?
Il lavoro, dice l’articolo 1 della Costituzione, è il fondamento della Repubblica. Perciò, non è una merce, ma ha un valore. Sopprimere la stabilità del lavoro con la precarietà significa sopprimere questo fondamento della nostra democrazia. C’è una massima di Kant che andrebbe ricordata ai nostri governanti: «Ciò che ha prezzo non ha dignità, ciò che ha dignità non prezzo». Se ha valore, non ha un prezzo, e perciò non si può licenziare una persona in cambio di una manciata di mensilità come ha fatto il Jobs Act cancellando l’articolo 18. Così si distrugge la dignità della persona. Questa riforma ha eliminato la garanzia su cui si regge il nostro assetto costituzionale: l’intrinseca dignità del lavoro, trasformato in merce.
I populisti usano la povertà degli italiani contro quella degli stranieri, al punto da negare i loro diritti fondamentali. Come ribaltare questo discorso?
È la strategia di tutti i populismi, a cominciare da Trump: mettere i penultimi contro gli ultimi, i poveri contro i migranti. Si ribalta la direzione della lotta di classe: non più il basso contro l’alto, ma il basso contro chi sta ancora più in basso. Così si fomenta la lotta tra i poveri e la guerra contro i poverissimi: i migranti, ad esempio. Vorrei ricordare che il diritto di migrare è il più antico diritto naturale teorizzato nel 500 da Francisco de Vitoria per giustificare la colonizzazione spagnola e lo sfruttamento dei popoli. Da allora è rimasto una norma del diritto internazionale che ha giustificato le rapine che l’Occidente ha fatto in tutto il mondo. Il diritto di migrare è stato un diritto universale riconosciuto a tutti, ma asimmetrico. Nel senso che solo gli europei potevano di fatto esercitarlo e non certo i popoli colonizzati. Oggi che il flusso migratorio si è ribaltato e sono gli altri popoli a migrare, questo antico diritto è stato rimosso e il suo esercizio è stato convertito nel suo opposto, in un reato. Le leggi odierne sull’immigrazione esibiscono questa eredità razzista.
I tagli e le politiche di austerità hanno aggredito un altro diritto fondamentale: la sanità. Dobbiamo rassegnarci alla dismissione del pubblico e alla sua gestione privatistica?
Assolutamente no. Questa azione insensata non può cancellare il diritto alla salute, che è un diritto costituzionale, base dell’uguaglianza, e perciò universale e gratuito. Una politica come quella dei ticket, insieme alla precarizzazione del lavoro e delle tutele, hanno spinto 11 milioni di persone a rinunciare alle cure anche fondamentali perché non hanno le risorse finanziare. Senza contare che la somma ricavata dai ticket è ridicola: 4 miliardi su 110 di fondo nazionale.
Nel Lazio esiste una vertenza esemplare della situazione che descrive. Dopo anni di lotte, ai lavoratori esternalizzati della Sanità regionale è stato riconosciuto il lavoro di anni. Avranno un punteggio che potranno utilizzare nei prossimi concorsi. Il governo ha impugnato davanti alla Corte Costituzionale la legge regionale. Che ne pensa?
È una decisione giuridicamente infondata perché la legge regionale non è subordinata alla legge statale. Tra l’altro la legge statale permette questi riconoscimenti a chi lavora presso le Asl e non solo a chi lavora alle loro dirette dipendenze. La legge in questione estende le tutele del lavoro sulla base del riconoscimento di titoli professionali. È insensato sanzionare una legge regionale a causa di una modestissima norma che dà un punteggio preferenziale a chi già lavora da anni nel settore e ha una professionalità attestata dalle stesse istituzioni. Gli unici a essere danneggiati saranno i lavoratori precari ed è inaccettabile.
Cosa dovrebbe fare la Regione Lazio?
Mi auguro che difenda la sua legge davanti alla corte costituzionale sperando che dia torto al governo, sulla base di argomenti anche soltanto formali; se non altro a difesa dell’autonomia e della potestà legislativa della Regione.
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Luigi Ferrajoli è uno dei massimi teorici del diritto. Negli anni Sessanta ha partecipato alla fondazione di Magistratura Democratica, è stato magistrato presso la pretura di Prato fino al 1975. Dal 2014 è professore emerito di filosofia del diritto a Roma Tre. È autore di più di 30 libri tradotti in tutto il mondo. Ha scritto capolavori come « Diritto e Ragione. Teoria del garantismo penale» (1989) e «Principia Iuris. Teoria del diritto e della democrazia» (3 voll.) (2007).
Tratto da Il Manifesto edizione del
2 commenti
1 Aladin
25 Marzo 2018 - 11:39
Anche su Aladinews: http://www.aladinpensiero.it/?p=80302
2 Gianfranco Sabattini
26 Marzo 2018 - 10:30
Caro Direttore, dopo la pubblicazione su questo “Blog” degli articoli sul problema dell’introduzione in Italia del reddito di cittadinanza e di alcuni commenti sull’argomento da parte dei lettori, consentimi di esporre alcune brevi riflessioni.
Il reddito di cittadinanza incondizionato e universale correttamente inteso non è una “misura welfarista”; esso consente di dare risposte, economicamente e socialmente significative, di natura strutturale, ai problemi connessi con l’allargamento e l’approfondimento del fenomeno della disoccupazione irreversibile, della precarizzazione del lavoro e della povertà.
L’istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza corrisposto incondizionatamente a tutti i componenti (per alcuni a tutti i residenti) di un sistema sociale comporta una profonda trasformazione della tradizionali forme organizzativa della sicurezza sociale, soprattutto di quella particolare che si è espansa ed approfondita dopo la critica keynesiana al libero mercato di concorrenza.
La crisi di questo mercato comporta, non solo la necessità di una sua riforma, ma anche della riforma del modello di distribuzione del prodotto sociale, al fine di adeguare quest’ultimo alla prevalere crescente del fenomeno della disoccupazione irreversibile (che riassume in sé, sul piano delle conseguenze, anche la precarizzazione del lavoro e lo stato di povertà). Conseguentemente, la riforma del welfare State, o tiene conto dell’inadeguatezza del sistema della “copertura dei rischi sociali”, nato e consolidatosi nell’epoca pre-fordista, o si espone alle critiche neoliberiste, finalizzate a sottoporre lo Stato sociale ad un drastico ridimensionamento, in quanto considerato causa della continua espansione della spesa pubblica. La riforma del welfare State fordista, perciò, come osservano, Agostino Mantegna e Andrea Tiddi in “Reddito di cittadinanza”, deve, da un lato, “garantire i diritti acquisiti dai padri ‘fordisti’…, dall’altro consegnare ai figli un sistema di garanzie adeguate alla nuova forma del lavoro post-fordista”. In questa prospettiva, trova giustificazione l’istituzionalizzazione di un reddito di cittadinanza a vantaggio del disoccupati (e dei poveri) permanenti, in grado di assicurare l’accesso al reddito a tutta quanta la forza lavoro che perde involontariamente la stabilità delle condizioni della propria “esistenza”.
In questo modo, la “questione sociale”, propria della società post-fordista, caratterizzata dalla compresenza di due classi di lavoratori (lavoratori occupati e lavoratori disoccupati) può essere risolta con l’introduzione del reddito di cittadinanza, realizzata attraverso una riforma del welfare State, al fine di estendere a tutti un sicuro sistema di garanzie, valido anche per i coloro che sono privi di reddito, in quanto privi di lavoro.
In presenza delle condizioni di funzionamento degli attuali sistemi economici, la mancata riforma del welfare State fordista è considerata causa dell’inefficacia, non solo delle politiche pubbliche tradizionali, orientate al sostegno del pieno impiego, ma anche di rutti i tentativi di mediazione statale fondati su una ridistribuzione delle opportunità di lavoro esistenti; sia le politiche pubbliche tradizionali, che questi tentativi di mediazione, se adottati da soli, sono destinati a non incidere sul contenimento della disoccupazione strutturale. Come Affermano Mantegna e Tiddi, si tratta di “provvedimenti che, per così dire, lavorano sugli argini, mentre sul letto del fiume scorrono le acque che portano le macerie del Welfare State”.
Le perplessità sollevate dai “critici” degli articoli pubblicati sul “Blog” riguardo al reddito di cittadinanza, ripropongono inintenzionalmente quelle solitamente avanzate, non disinteressatamente, dai sostenitori dell’ideologia neoliberista. Il critico Giorgio, ad esempio (trascurando il problema delle disuguaglianze internazionali del tutto indipendente dal quello dell’introduzione del reddito di cittadinanza), solleva principalmente il dubbio che non vi siano abbastanza risorse per finanziare il reddito di cittadinanza, avanzando tra l’altro il dubbio, assieme a Tonino Dessì, della sua non sostenibilità morale.
Il problema della “copertura delle risorse necessarie” è una falsa preoccupazione, perché il reddito di cittadinanza incondizionato non è una “misura caritatevole aggiuntiva” di natura welfarista, destinata a causare una maggior spesa pubblica, ma un’innovazione complessiva dello Stato sociale esistente, implicante una riorganizzazione di tutte le risorse attualmente impiegate per il suo mantenimento, al fine di renderlo conforme alla nuove modalità di funzionamento dei moderni sistemi produttivi.
La perplessità avanzata da Tonino Dessì non ha ugualmente ragion d’essere, in quanto, come è stato continuamente ripetuto nei numerosi interventi apparsi su questo “Blog” sull’argomento, il reddito di cittadinanza incondizionato è logicamente svincolato dalla cosiddetta “etica del lavoro”. Se ciò non fosse, l’affermato rapporto che esiterebbe tra lavoro e stima di sé (perché “il Lavoro è vita”, “il lavoro è partecipazione”, “il lavoro è autonomia”, il lavoro è solidarietà, ecc.), senza del quale nulla avrebbe valore, comporterebbe la necessità di riconoscere che la continua creazione di posti di lavoro costituisce una priorità ineludibile delle politiche oubbliche. Ora, però, perché il lavoro porti stima di sé occorre che i posti di lavoro esistano; sennonché, il capitalismo post-fordista da tempo, distruggendo posti di lavoro con la continua crescita della conoscenza, crea solo una crescente disoccupazione strutturale irreversibile, per cui nel mondo attuale diventa ineludibile una nuova priorità, quella di garantite il diritto al reddito e non il diritto al posto di lavoro; ciò, perché diventa sempre più difficile contenere la riduzione dei livelli occupazionali del passato.
Infine, un’ultima riflessione, sempre nella speranza che ciò serva a fare chiarezza (e, soprattutto, ad avere chiarezza di idee) quando si parla di reddito di cittadinanza (o, come lo chiama André Gorz reddito di esistenza). Tra il reddito di cittadinanza e il reddito minimo garantito non esiste alcun corrispondenza, né sul piano della loro definizione, né su quello della loro funzione.
Il primo è un reddito attribuito incondizionatamente a tutti i cittadini, indipendentemente dal fatto che essi siano percettori o meno di altri redditi da lavoro o da capitale, mentre la sua erogazione non è subordinata a nessuna “prova dei mezzi” e, in quanto incondizionato, sottoposto ad altre forme di vincoli (impegno del beneficiario alla riqualificazione delle proprie capacità lavorative, obbligo di cercare il reinserimento nel mercato del lavoro, ecc.); per quanto riguarda la funzione, il reddito di cittadinanza incondizionato è volto a ridefinire (è bene ripeterlo sino alla nausea), da un lato, la struttura dello Stato sociale, al fine di renderla conforme alle attuali modalità di funzionamento dei sistemi produttivi capitalistici; dall’altro, a sottrarre allo “stigma sociale”, connesso allo stato di disoccupato e a quello di povertà di chi ha perso (o non ha mai acquisito), indipendentemente dalla propria volontà, ogni possibilità di reddito, per cui sia costretto a vivere con le elargizioni caritatevoli dell’organizzazione del welfare State esistente.
Il reddito minimo garantito, in quanto “misura welfarista”, è una forma di sostegno economico illimitata nel tempo, riservata a coloro che, per varie ragioni, hanno difficoltà ad inserirsi o reinserirsi nel mercato del lavoro, potendo esso integrarsi anche con un reddito già esistente se il beneficiario non supera la cosiddetta soglia minima di povertà.
Inoltre, il reddito minimo garantito, sempre in quanto “misura welfarista”, può essere eventualmente subordinato anche a particolari vincoli, ai quali il beneficiario è obbligato ad attenersi, quali, ad esempio, quello di accettare obbligatoriamente un eventuale opportunità di lavoro proposta dall’ufficio di collocamento, pena la perdita del beneficio in caso di rifiuto (La visione del bel film “Io Daniel Blake”, diretto dal regista Ken Loach, è molto istruttivo al riguardo).
Infine, un’ultima riflessione. Il reddito di cittadinanza condizionato proposto dal “Movimento 5 Stelle” (quali che siano i vincoli gravanti sul beneficiario: quelli indicati da Di Maio o direttamente da Grillo) ha i connotati del reddito minimo garantito e non quelli propri del reddito di esistenza descritto di Gorz, finalizzato a superare l’attuale logica del welfare State, al fine di adeguare le modalità distributive del prodotto sociale alle mutate condizioni di funzionamento dei sistemi economici capitalistici. Giuste, quindi, le preoccupazioni di quanti si chiedono come e in che modo il reddito di esistenza, così come proposto dal “Movimento 5 Stelle”, sarà finanziato.
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