Andrea Pubusa
Avete letto la delibera dell’Ufficio regionale per il referendum? Leggetela, è un testo corretto nel dispositivo, ma a dir poco discutibile nella motivazione. Ha ragione l’ex presidente del Tar Numerico a criticare il primo motivo. Nella deliberazione il quesito “si aggancia” all’art. 1 lettera f) della legge sarda sui referendum (L. reg. 17 maggio 1957 n. 20, nel testo novellato con L. reg. 15 luglio 1986 n. 48), laddove all’istituto si affida la finalità, fra le altre, di “esprimere parere su questioni di particolare interesse sia regionale che locale”. E si sostiene: a) che il quesito dovrebbe avere ad oggetto una questione controversa; ed in questo caso ciò non sarebbe; b) che non si tratterebbe di un parere, ma di un atto di indirizzo. Così l’Ufficio regionale.
Ha ragione Numerico quando afferma che “non è vero che nella legge si richiedono questioni controverse, ma soltanto questioni di particolare interesse regionale”. E qui vi ricordo una vicenda dimenticata. La legge regionale n. 48 del 1986, che ha novellato in questa parte la legge n. 20 del 1957, l’ho cucinata io, al tempo presidente della prima Commissione del Consiglio regionale, con l’aiuto di due valenti (allora giovani) funzionari, Alfonso Di Giovanni e Tonino Dessì, che era anche dirigente regionale del Partito comunista. Eravamo affascinati dalle elaborazioni del Centro per la riforma dello Stato, presieduto da Pietro Ingrao, che, nella sua riflessione per una riforma democratica delle istituzioni, aveva avanzato la proposta di introdurre nel nostro ordinamento i referendum d’indirizzo. Ed è proprio a questo che pensavamo; il referendum consultivo ci sembrava riduttivo. Decidemmo, però, di usare il termine “parere” per paura che il governo rinviasse la legge (i rinvii allora erano numerosi!) e poi la impugnasse davanti alla Corte costituzionale. I tempi non ci sembravano maturi per una innovazione così radicale. In quel tempo erano sotto attacco anche i referendum abrogativi, mentre quelli d’indirizzo non erano previsti nella Carta. Usammo, prudentemente, il temine “parere”. Ma pensammo che il “parere” espresso dal corpo elettorale fosse, nella sostanza, un atto d’indirizzo. Non ci venne in mente che un Ufficio regionale potesse avanzare una intepretazione così cervellotica, da equiparare la manifestazione di volontà del corpo elettorale ad un parere amministrativo in senso tecnico, che effettivamente è un atto che esprime un giudizio o una valutazione su una questione controversa. Qui non c’è alcun atto di giudizio nè cosa controversa, c’è una deliberazione degli elettori indirizzata agli organi rappresentativi regionali e volta ad attivarne l’iniziativa. Punto.
Coglie, dunque nel segno e ben interpreta la volontà del legislatore il Presidente Numerico quando dice: “E’ vero che il parere è un’opinione, ma l’opinione è espressa perché poi da questa opinione si tragga un indirizzo, cioè si segua il contenuto del parere. Sembra veramente assurdo puntare su questo aspetto formalistico, che non supporta la tesi che se ne vuole trarre: cioè che siccome non c’è la parola parere si è fuori dalla tipicità, questa, sì, effettivamente prescritta, delle richieste al referendum. Ovviamente il referendum resta sempre consultivo, pur se, appunto, non si usa il termine parere”. Ed ha ben ragione l’ex magistrato a stupirsi per il fatto che “la maggioranza dell’Ufficio – formata […] da magistrati – si sia lasciata orientare […] da un argomento da “azzeccagarbugli””.
Sconcertante è anche il secondo argomento, “ad abundantiam”, a sostegno dell’inammissibilità. Si evoca la c.d. riserva statutaria, per sostenere che: a) l’autonomia regionale speciale vive negli statuti e non nella Costituzione (art. 116 comma 1 Cost.); b) che ove fosse possibile inserire in Costituzione il principio dell’insularità, ciò aprirebbe la strada ad altre modifiche proposte da altre Regioni speciali, con disallineamento rispetto al disegno del Costituente.
Che argomento è questo? Semmai si può osservare - come ha fatto Omar Chessa in un ottimo articolo sul tema - che il principio d’insularità interessa anche la Sicilia, l’Elba ed altre isolette e che, dunque, è questione che travalica l’ambito regionale per rifluire su quello nazionale o sovraregionale, con la conseguente inammissibilità del referendum sardo poiché disporrebbe ultra vires, ossia al di là del proprio ambito territoriale e ovvio di competenza limitato a questioni d’interesse regionale o locale. Questo argomento è stato già usato per dichiarare l’inammissibilità del referendum sull’eliminazione della base USA di S. Stefano a La Maddalena nel 1987. Insomma, non può una porzione del corpo elettorale nazionale, quale è l’elettorato sardo, dettare indirizzi su questioni nazionali.
Dunque, non ci azzecca la pretesa incompatibilità del principio di insularità con l’art. 5 Cost. perché non urta con l’indivisibilità ed unità della Repubblica, Tant’è vero ch’esso era previsto nell’originario testo dell’art. 119 Cost, che costituzionalizzava la storica “Questione Meridiomale” e la questione insulare, testo poi improvvidamente revisionato dagli improvvisati “padri costituenti” del 2001.
Osserva Numerico, non in solitudine, che anche alle regioni speciali si dovrebbe estendere l’art. 116, comma 3, Cost. che ha consentito i recenti referendum consultivi del Veneto e della Lombardia. Ma - a ben vedere e a tacer d’altro - questo è un argomento contra, perché il Comitato referendario sardo non ha attivato quella procedura, ma ha agito dichiaratamente nell’ambito della legge regionale n. 20 del 1957 nella parte novellata nel 1986.
Se posso permettermi un consiglio, suggerirei ai referendari insulari di lasciar perdere i ricorsi, che sono d’esito incerto e comunque non porteranno da nessuna parte, a nulla di concreto. Si potrebbe più proficuamente, utilizzare la spinta delle firme raccolte per intraprendere due vie non alternative: quella della revisione costituzionale ex art. 138 Cost., da attivare con una legge regionale, oppure, allo stesso modo, avviare la procedura di revisione dello Statuto sardo secondo l’art. 54 dello Statuto medesimo. Salvo che non si voglia fare “ginnastica” referendaria, per agitare una questione di diritti, da giocare non tanto sul terreno delle procedure costituzionali, ma su quello politico. Si può fare, ma bisogna dirlo. Certo è che, così facendo, è difficile distinguere la agitazione delle masse, sempre positiva nella battaglia per i diritti, dalla banale propaganda mirata al voto, in una campagna elettorale che dura un anno.
1 commento
1 Aladin
7 Febbraio 2018 - 13:51
Anche su Aladinews: http://www.aladinpensiero.it/?p=78096
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