Cristian Ribichesu
Ormai dove ti giri ti giri non è più possibile vedere e ascoltare politici che ripetono frasi tipo ”riavviciniamo la politica ai giovani” o “adottiamo politiche per i giovani” o “impostiamo un ricambio generazionale lasciando più spazi ai giovani”, non tanto per le frasi in sé, quanto piuttosto perché alle frasi non corrispondono i fatti, come dire la potenza non si trasforma in atto. Certo, esistono casi, anche locali, in cui qualche istituzione si sta attivando in favore dei giovani. Ma il tutto si riduce a poco e certamente non basta rispetto ai problemi dei giovani, sardi e italiani. La nausea è tanta, e lo sconforto pure, e forse è dovuta al proliferare di manifestazioni che in realtà non vogliono dare spazio ai giovani, ma che, invece, con una retorica ammaliante, di questi intendono catturare il voto politico, non altro.
Molto probabilmente l’esigenza politica di rivolgersi ai giovani, che ormai nei parametri nazionali sono inclusi in fasce d’età che vanno dai sedici fino ai trenta/trentacinque anni, nasce dal fatto che i due poli contrapposti, centro-destra e centro-sinistra, catalizzano l’intera competizione politica e, nel gioco dell’alternanza governativa, in situazioni di quasi parità elettorale, hanno capito che per “spuntarla” devono cercare di prendere il voto di quella parte di elettori che maggiormente si allontanano dalle urne, scegliendo di fare politica non facendo politica, appunto i giovani.
Alle attuali logiche di avvicinamento ai voti dei giovani, e non per i giovani, aderiscono pienamente il centrodestra e, anche, il partito democratico, che però in poco tempo ha bruciato le speranze che aveva alimentato e sembra diventato un mezzo per un’ulteriore conservazione di “posti datati”, proprio in antitesi con lo spazio per i giovani.
Si sprecano i convegni sulla sui giovani e la politica. Si parla delle “monarchie ereditarie”, dell’invecchiamento della popolazione italiana, del problema del precariato, della mancanza della meritocrazia, dell’impossibilità di molti giovani nel rendersi autonomi e nel creare una propria famiglia ed altro ancora. Parafrasando un po’ il ritornello di una vecchia canzone, “parole, parole, parole…soltanto parole”. Ovviamente non basta una sala gremita di giovani per decretare il successo di un convegno e/o di una conferenza rivolti ai giovani. Sicuramente i messaggi mediatici di questo tipo hanno un’influenza diretta sulle emozioni degli spettatori, ma le informazioni che devono incidere sulle persone, producendo cambiamenti significativi e, finalmente, creando e incidendo sui valori in maniera positiva, vanno riscontrate in un arco temporale più lungo. E non esistono dubbi sul fatto che i giovani aumenteranno la propria distanza dalla politica se, alle manifestazioni mediatiche non faranno seguito azioni concrete d’inserimento di questi nella vita sociale, politica e lavorativa. Lo confermano i dati sulla disoccupazione sarda, che ne evidenziano l’aumento. Anche l’Ocse, qualche tempo fa, affermava che “in Italia il tasso di occupazione rimane uno dei più bassi al mondo, meno del 58% della popolazione in età lavorativa ha un impiego, contro più del 70% in paesi come Canada, Danimarca o Regno Unito e in ogni caso sotto la media (66,1%). Tra i 30 Paesi dell’Ocse l’Italia è quart’ultima”. Insomma, una situazione nazionale e regionale che la dice lunga sui problemi che i giovani devono affrontare per potersi rendere indipendenti. Ma nel nostro Paese e nella nostra Isola i dati e le loro interpretazioni cambiano a seconda di chi li espone. Ed allora, per avere una percezione minima delle stato di malessere che affligge le persone comprese tra i sedici e i trentacinque anni, perché non visitare i “quartieri poveri”? O perché non recarsi nelle parrocchie nei giorni di distribuzione dei generi alimentari o degli indumenti? Oppure perché non andiamo a trovare i giovani laureati che stanno anni senza lavoro, o al limite lavorano saltuariamente per poche centinaia di euro? Diamine, non può essere questa la flessibilità dei giovani!
Questo è sconcertante, ma in molti sbandierano risposte e formulano soluzioni contro l’allontanamento della gioventù italiana dalla politica senza farsi alcune semplici domande. Come mai i giovani universitari e laureati hanno difficoltà ad avvicinarsi al mondo della politica? E i giovani lavoratori e i disoccupati? E i giovani delle campagne sarde, ormai sempre più spopolate, come possono avvicinarsi alla politica? E dove vanno i giovani, provenienti da situazioni di disagio, di cui spesso “si perdono le tracce”? Tutte domande importanti e doverose per problemi seri, cronici, congeniti e ricorrenti, come alcune delle peggiori malattie!
E la risposta? Gira, gira è semplice, ed è una sola: per migliorare la vita dei giovani e conseguentemente di tutti, occorrerebbe il miglioramento della qualità della democrazia; una maggiore partecipazione politica da parte di tutti, più trasparenza amministrativa, più moralità, e svecchiamento della classe dirigente. Però tutto diventa inutile se non cambiano il modo e il fine della politica, da intendere come mezzo per conoscere e risolvere i problemi per il bene di tutti.
Una cosa è certa: i giovani non si avvicinano alla politica se la politica non risolve il problema del lavoro dei giovani, che è presupposto e mezzo di libertà, di dignità e da voglia di vivere!
Siamo in campagna elettorale. Sono lodevoli i politici che dicono di voler affrontare le problematiche giovanili, ma il tempo delle parole è finito. Occorrono politiche organiche seriamente progettate e finanziate. Per capirci, occorre uno stile Obama, il modo con cui il giovane Presidente si accinge a contrastare la disoccupazione negli States.
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