La mattanza di Parigi: sacrosanta la condanna, e poi?

9 Gennaio 2015
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Andrea Pubusa

Di fronte agli assassinii di Parigi viene anzitutto alla mente la viltà dei massacratori: una cosa è un’azione di guerra fra soggetti in guerra, altra la mattanza di persone inermi, colte alla sprovvista nella loro quotidianità. E non ci sono parole per la condanna. Non c’è causa che giustifichi queste azioni. Ma su questo molto si legge sulla stampa di tutte le tendenze, tanto si vede in TV. E poco o niente c’è da aggiungere.
Viene invece alla memoria la campagna scellerata, dopo l’attacco alle Torri gemelle, di George W. Bush e di Dick Cheney, col consenso di tutti i governi occidentali, che ha portato in breve tempo alla invasione dell’Irak. Giuliano Ferrara in un fondo dell’Unione sarda la assume a modello del trattamento ordinario verso gli islamici. Ma oggi chiunque abbia un barlume di ragionevolezza e di onestà intellettuale dovrebbe ammettere che si trattò di un madornale errore, di un’azione ingiustificata e, in fondo, suicida. 
Saddam non era certo uno stinco di santo né un campione di democrazia, era tuttavia un laico che aveva, se non creato, ereditato e mantenuto un equilibrio fra le diverse componenti religiose, tant’è che il vice-presidente Tariq Aziz, venuto anche in visita in Italia e in Vaticano, era un cattolico-copto. D’altronde la dimensione non confessionale del partito Baath, di cui Saddam era in qualche modo erede, è sottolineata proprio dalla disomogeneità religiosa dei tre fondatori: alawita al-Arsūzī, cristiano ortodosso ʿAflaq e musulmano sunnita al-Bīṭār così come Akram el-Hurānī che più tardi raggiungerà il gruppo e sarà il promotore dell’aggiunta dell’aggettivo “socialista”.  Saddam era, dunque, un esponente di quella generazione di politici del Baath, partito panarabo e con dimensione sovranazionale (Siria, Irak, Giordania), che, nel nome del nazionalismo arabo, hanno creato forse gli unici governi laici possibili a quelle latitudini e in quei contesti. Lo stesso dicasi per Gheddafi in Libia e Mubarak in Egitto. Certamente si tratta di regimi assai lontani dal modello angossassone o da quello europeo continentale d’occidente nato dalla Resistenza al nazifascismo, e sono sistemi distanti anche dalla prospettiva originaria del nazionalismo panarabo, ma è il sistema meno dannoso in quei contesti. Contrariamente a quanto dice Giuliano Ferrara e chi la pensa come lui, il moto pacifista e antiinvasione che si sviluppò allora e che aveva in prima fila Papa Wojtyla e tutto il mondo cattolico non era mosso da una subalternità al mondo arabo, ma, esattamente all’opposto, mirava ad un confronto e ad un rapporto fondato sull’interesse reciproco. E anzitutto quel movimento partiva da una verità evidente fin d’allora, e cioé che Saddam non c’entrava nell’attacco alle Torri e che a tutto pensava fuorché a mettersi in guerra con gli States. Saddam tutto era fuorché ingenuo e ben sapeva che da uno scontro militare con gli USA non poteva uscirne vincitore nè vivo.
L’attacco all’Irak e la destabilizzazione della Libia e del mondo arabo non hanno dato un plus di democrazia, com’era facilmente prevedibile, ma hanno aperto le porte ad un estremismo di cui i fatti di Parigi sono l’espressione più barbara e tragica. In Egitto si è evitato il peggio perché c’è un esercito forte, che ha ripreso in mano la situazione in sostanziale continuità col regime precedente.
Pertanto, la condanna per il massacro di Parigi è ovvia e istintiva, ma occorre la politica. E certo le posizioni estremiste alla Giuliano Ferrara non possono portare a nulla di buono come è insufficiente un approccio semplicemente repressivo. Il bandolo della matassa sta nella soluzione dei temi destabilizzanti del mondo arabo, a partire dalla questione palestinese che eliminerebbe un fattore di instabilità e di scontro permanente. Da lì poi occorrerebbe ripartire per una ricomposizione, puntando sui paesi di quell’area che hanno mantenuto una loro stabilità interna, a prescindere dal loro tasso democratico certo molto vicino allo zero. E’ un’opera immane. Gli equilibri per quanto insoddisfacenti una volta spezzati sono di ardua ricomposizione. L’unica cosa certa in tutto questo è che dalla violenza nasce violenza in una spirale senza fine e senza limite, e che la ricomposizione richiede fermezza, ma anche rispetto. Parigi, dopo la naturale condanna dell’eccidio, richiede sopratutto iniziativa politica e intelligenza, molta intelligenza.

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