Jobs Act e senso dello Stato

2 Gennaio 2015
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Francesco Cocco

Non voglio entrare nel merito della legge delega sul cosiddetto “jobs act” e dei relativi decreti d’attuazione  che stanno cominciando a prender vita. Altri l’hanno fatto con ben maggiore competenza. Ma non posso tacere la mia indignazione come cittadino e come militante del “movimento operaio” (mi si passi la locuzione che qualche “modernista” definirebbe di stampo novecentesco) rispetto al grande inganno di una normativa che si vorrebbe far passare come finalizzata all’ aumento della occupazione. Il fine è ben altro: ridurre ulteriormente i margini di potere contrattuale dei  lavoratori.
Vi è un altro aspetto che sta emergendo chiaramente con le prese di posizione del giuslavorista senatore  Ichino (rappresentante di una componente del  governo)  e di alcuni esponenti del N.C.D.. Mi riferisco alla possibilità di applicare al rapporto di pubblico impiego la nuova normativa del jobs-act. Perché poi nella legislazione italiana si debba usare la lingua inglese, bisogna che lo spieghino. Forse semplicemente si vogliono annebbiare ancora di più le menti ?  Arcana imperi
La pretesa di estendere al rapporto di pubblico impiego la nuova normativa dimostra chiaramente quanto sia debole il senso dello Stato nelle forze di governo. Ed anche quando, come nel caso del ministro Madia, si afferma non potersi applicare tale normativa in quanto i pubblici dipendenti vengano assunti  con pubblico concorso è evidente la fragilità del ragionamento.
Credo che la debolezza dell’ argomentazione nasca da uno scarso senso dello Stato. Certo il dettato costituzionale impone l’assunzione per pubblico concorso, ma sappiamo che esso è stato spesso e volentieri disatteso per motivi clientelari. La verità è che sia nell’argomentazione del prof. Ichino  sia in quella del ministro Madia non si tiene in minimo conto che il rapporto di lavoro di un pubblico impiegato non è finalizzato a produrre beni o servizi (in quei casi si sono già scorporate le attività creando società private) ma ad estrinsecare e porre in essere la volontà dello Stato.
Questo non significa che il pubblico dipendente sia svincolato dai condizionamenti che caratterizzano il rapporto di lavoro privatistico. Anzi per qualche verso è il contrario, e nella normativa che deve disciplinarlo andrebbero applicate norme anche più rigorose. La fellonia del pubblico dipendente non è il semplice tradimento del rapporto di lavoro con l’imprenditore. E’ tradimento dell’interesse della comunità. Qualcosa quindi di ben più grave.
Non sto a scomodare vecchie teorie organicistiche d’immedesimazione con l’ente pubblico. E’ una realtà molto più semplice e nello stesso tempo più complessa, che implica maggior rigore etico in chi ha funzioni di guida della cosa pubblica. Comporta la necessità di spezzare il padrinato che nasce dal vassallaggio politico, specie quando il rapporto di pubblico impiego non nasce dal pubblico concorso, come impone la Costituzione, ma sostanzialmente dall’ assunzione clientelare. L’esperienza insegna che quando non si vuole affrontare un problema si opta per la “fuga in avanti”. E così si maschera quella che in verità è una sostanziale debolezza cialtronesca.
La finalità di mettere all’esclusivo servizio della Repubblica il dipendente pubblico non può essere perseguita con una semplicistica applicazione della normativa privatistica. Piuttosto con un nuovo, reale e partecipato senso dello Stato in chi ha funzioni e responsabilità di guida delle istituzioni. 
                                                                    

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